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Capece, Scipione

Biografía

Nápoles, 1480 – Nápoles, 1551. Profesor de derecho civil en Nápoles. Llegó a dirigir la Academia Pontaniana y se le vincula con la doctrina religiosa de Juan de Valdés. Son conocidos sus poemas De principiis rerum (1546), de impronta lucreciana, y De divo Iohanne Baptista vate maximo libri tres (1533).

Más información en: http://www.treccani.it/enciclopedia/scipione-capece/http://www.treccani.it/enciclopedia/scipione-capece_%28Enciclopedia-Italiana%29/https://www.wikidata.org/wiki/Q2260338.

 

“S. Capece. — Un altro poemetto De nativitate Domini fu composto dal napoletano Scipione Capece, intorno al quale (come più appresso vedremo) si accentrò l’ultima fase dell’accademia pontaniana: in esso non manca qualche pregio, ma vi si nota insistente la preocupazione dell’autore di badare più alla correttezza dell’espressione che alla elaborazione artistica della materia. All’opposto, un altro poemetto, in tre libri, del Capece stesso, De vate maximo, è ricco di pregi per la umanità di cui è rivestita la figura di san Giovanni Battista, dalla sua prima educazione domestica fino alla sua vita campestre, e dal battesimo di Cristo fino alla storia di Erodiade e alla decollazione. E tutto ciò senza l’apparato di immagini mitologiche, delle quali i predecessori del Capece avevano fatto sì largo uso nei loro poemi; e se anche qui è la musa epica di Virgilio a ispirare l’umanista, almeno un po’ di limpidità virgiliana al De vate maximo non possiamo negargliela.

Scipione Capece, figliuolo del noto giureconsulto Antonio, dovè nascere a Napoli quasi certamente, tra la fine del 1506 e i primi del 1507. Fu forse discepolo del Summonte; ma dei suoi primi anni non conosciamo altro, se non che, giovanissimo ancora (e cioè intorno al 1530), occupò la carica di governatore di Cosenza. Inaccettabile è la data del 1519, che l’Origlia pone per l’insegnamento del Capece dalla cattedra di istituzioni civili nello Studio di Napoli, perchè il Capece avrebbe avuto appena dodici anni. Forse quella cattedra era occupata dal padre, Antonio; e il nostro Scipione, presumibilmente, assunse per la prima volta quella di diritto civile nel 1534, in sostituzione di Gaspare de Leo, e la tenne fino al 1539, allorchè fu eletto consigliere di s. Chiara, dopo aver dato alle stampe le sue lezioni sull’acquisto di proprietà, pubblicate alcuni anni dopo dal Sultzbach.

Ma maggior cura egli soleva dedicare agli studî classici e alla poesia, come testimoniano il suo comento erudito a Donato, pubblicato dallo stesso Sultzbach e dal Cancer nel 1535 a cura di Paolo Flavio, e la raccolta di Elegiae et Epigrammata, pubblicata postuma nel 1594 a Napoli dai tipografi G. G. Carlino e A. Paci. Dell’orazione solenne, da lui pronunziata all’arrivo di Carlo V, dal quale ebbe poi tanti favori, non ho potuto trovar copia; e così pure del ms. della genealogia della famiglia materna Loffredo, del quale l’Ammirato afferma di essersi largament avvalso. Amicissimo dei pontaniani, egli curò nel 1532 l’edizione dei versi del Gravina, premettendovi una dedicatoria; al cardinale Seripando indirizzò una delle sue elegie; della collaborazione del Fascitelli volle spesso giovarsi; e un epigramma dedicò al De bello neapolitano del Querno (1529). Dal ’40 al ’43 è ricordato nell’indice dei consiglieri del Toppi; ma una nota concisa tronca all’improvviso: «Seipio Capycius deponitur». Si è lunga ricercata la causa probabile di cotesta deposizione; ma è ormai sicuro che, quando l’Ochino iniziò in Napoli le sue predicazioni, il Capece dovè esser tra i più assidui frequentatori di quelle reunioni, sì che i vecchi onori ben presto si conversero in tristi lutti. Ai primi del ’44 doveva già essersi rifugiato alla corte del principe di Salerno Sanseverino, e alla moglie di lui, Isabella Villamarina, dedicò un suo poemetto filosofico, De principiis rerum, in due libri, pubblicato nel ’46 dal Manuzio, e ristampato poi nella ricordata edizione napoletana del ’94.

Nel primo libro del De principiis, il Capece combatte l’opinione di colore che credono all’eternità della materia; nel secondo, dimostra che l’aria è il principio di tutte le cose, rigettando le opinioni di Lucrezio e di Epicuro, di Leucippo e di Democrito. Ma, a imitazione di Lucrezio, anch’egli invoca Venere all’inizio della sua opera:

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, coeli subter labentia signa,
quae mare navigerum, quae terras frugiferentes
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis:
te, dea, te fugiunt venti, te nubila coeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine coelum.

E l’imitazione lucreziana si accentua ancor più nella descrizione del mare e delle stelle:

Perpetuae tractus telluris, vastaque ponti
aequora coerulei, coelique immensa profundi
mirati spatia, et mundum fulgentibus astris
distingui, et vario ferri vaga sidera motu
solerti ingenio mortales, abdite nosse
naturae arcana, et mundi indagare latentes
tentarunt ortus, dulcique cupidine rapti

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Ma, in realtà, il Capece segue la scolastica, con la sua distinzione tra corpo e pura materia: la conclusione stessa del poeta, che non fu la materia informe e rozza a dar ragione alle cose, e di qui la conseguente ammissione della creazione e di Dio, è di pura derivazione scolastica. Il De principiis è, perciò, interessante in quanto documento degli estremi conati scolastici dinanzi all’impetuoso sbocciare del naturalismo; ma più interesse ha per alcuni brani poetici, che sono tra le cose migliori del Capece. L’umanista Capece è, in fondo, una natura artistica, poco ricca di personalità poetica nelle elegie e negli epigrammi e nei poemetti sacri, ma sinceramente spontanea in questa sua ultima opera, scritta forse con l’intento di far dimenticare le sue simpatie valdesiane. È perciò un po’ sospetto come epigono della scolastica. Sentite la belleza ovidiana di questa descrizione del fuoco:

Sic etiam ingentem statuit cum evertere silvam
agricola, ut possit curvo proscindere aratro,
atque apta uberibus nova reddere furgibus arva,
hane valida cedit primum sternitque securi,
inde ardens rapit flagrat cum Sirius aestu
fragminibus rutilum congestis subijcit ignem,
qui tenues primum frondes, atque arida pascens
virgulta, in ramos elapsus robora dura
corripit, arboreamque struem populatur, et omnem
involvens flammis silvam, furit undique coelo
candentes undas mista caligine tollens:
isque ubi desaevit late, victorque per imas
irrepsit quercus, jamque acri pabula desunt
ardori, et minuunt paulatim incendia vires,
materies ingens, magnaeque cadavera silvae,
in cineres partim ventis agitanda recedunt,
inque animam reliqua, et volucres solvuntur in auras.

Evidentemente, il poeta ha dimenticato il filosofo, come altre volte il letterato umanista aveva dimenticato di parlar di digesto o, altrove, di materia sacra. Alcuni giunsero a dichiarare che preferivano  la letteratura del Capece a quella di Lucrezio, in quanto la prima più ricca di poesia e la seconda più ricca di filosofia; ma, in realtà, a noi sembrebbe il contrario, se potessimo avvalerci di certe viete distinzioni metodologiche. Il Capece non fu affato filosofo, nè ne possedeva il temperamento.

En: Altamura, Antonio. L’umanesimo nel mezzogiorno d’Italia. Firenze: Bibliopolis, Libreria Antiquaria Editrice, 1941, pp. 155 – 159.

 

 

“Scipione Capece (fine sec. XV – 1551) nacque a Napoli da nobile famiglia —era imparentato con i Loffredo e con le famiglie Villamarino e Sanseverino— e fu valente giureconsulto, cloquente oratore e appassionato cultore di studi filosofici e scientifici. Tenne cattedra di giurisprudenza nello Studio di Napoli e occupò altre cariche nella magistratura. La sua opera più apprezzata fu il poema De principiis rerum, sulla traccia di Lucrezio, che rivela i suoi interessi per i problemi scientifici e la sua perizia nell’uso del verso latino, a cui non manca eleganza e, talora, calore poetico. Il Bembo in una lettera al Capece così ne parlava: «Mentre mi diletto a osservare il cammino e i movimenti degli astri vaganti e di risolvere i mirabili problemi della natura, la mente, turbata dalle contrarietà e agitata da acuta anisia, compie lontano altri giri; ansia che trae me, mentre cerco di penetrare quei misteri della natura, indagati un tempo da vati immortali, a lamenti dolorosi, a profonde mestizie, me, ahi, troppo innamorato, ma invano, dall’amata sirena, che ora, spenta la luce della porta di casa, vede il nome del caro alunno invano inciso e guarda le stanze abbandonate dai fedeli frequentatori. Bella casa, che Venre construì con la mano delicata e leggiadra e cinse con un recinto di boschi». Testo latino: «Sed dum signorum incessus, motusque vagantum — Me iuvat, et miros naturae solvere nodos, — Longe alios cursus, alios mea perficit orbes Mens agitata malis, acrique exercita cura, Cura, has aeternis quaesitas vatibus olim, — quae me tentantem naturae accedere partes — Ad tristes verit gemitus, durosque dolores Heu misero nimium, et frustra Sirenis amatae, — Quae nunc de patriis demisso lumine portis — Incisum cari necquiquam nomen alumni, — Desertasque piis spectat cultoribus aedes; — Conspicuas aedes, molli quas aurea dextera — Extruxit, nemorumque Venus discrimine cinxit». Oltre il De principiis rerum, Venezia, 1546, scrisse il De vate maximo, Napoli, 1533; Elegie ed Epigrammi, nella ristampa dei due precedenti poemi, Napoli, 1594; Inarime, una storica descrizione di Ischia, Napoli, 1532 ed altre opere che si possono trovare elencate nelle Memorie storiche degli scrittori legali del R. di N. del Giustaniani, Vol. I, Napoli, 1787. Il poema De principiis rerum è stato tradotto dall’abate romano F. M. Ricci in versi sciolti, Venezia, 1754. Su di lui: E. Sciavello, S. Capece, umanista del sec. XVI, Napoli, 1900; A. Altamura, Per la biografia di S. C., in “Studi in onore di R. Filangieri”, II, pp. 302 sgg.; E. Garin, Storia della filosofia italiana, Einaudi, 1966, vol. II, p. 670; T. Tasso, Dialogo del piacere onesto, in Dialoghi, I, Firenze, 1858.”

En: Della Roca, Alfonso, L’umanesimo napoletano del primo Cinquecento e il poeta Giovani Filocalo. Napoli: Liguori Editore, 1988, p. 16.