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Ariosto, Ludovico

Biografía

Ludovico Ariosto (Reggio nell’Emilia, 1474 – Ferrara, 1533) nació en el seno de una familia aristocrática y, desde 1503, estuvo relacionado con la casa de Este hasta que, en 1518, pasó a la corte de Alfonso I de Este, duque de Ferrara. Su obra emblemática es el Orlando furioso (1516), que le consagró como el mayor poeta italiano de épica caballeresca. A parte de ella, escribió otras como las Satire, la comedia Negromante o las Rime.

Más información en: http://www.treccani.it/enciclopedia/ludovico-ariosto.

 

Ariosto a Napoli, por Gianluca Genovese

 

Nella capitale del Viceregno la diffusione delle opere di Ariosto, e in particolare dell’Orlando furioso, fu immediata. Alla metà degli anni Trenta, dunque subito dopo la terza e definitiva edizione del poema (1532), Ariosto veniva già considerato da alcuni intellettuali napoletani la “quarta corona” della letteratura volgare, insieme con Petrarca, Boccaccio e Dante.

Un caso significativo che attesta la tempestività con cui, a Napoli, Ariosto venne incluso nel canone dei classici moderni è il Rimario di Benedetto Di Falco, stampato da Mattia Cancer nel 1535.[1] Parti del Rimario circolavano già da tempo, e avevano suscitato polemiche alle quali Di Falco rispondeva con una combattiva autodifesa. Nel suo Rimario dieci autori, elevati a modello, venivano collocati in un preciso e motivato ordine di importanza: primo, Petrarca; secondo, Boccaccio; terzo, Dante; immediatamente dopo, Ariosto. Una scelta all’esterno percepita come rivoluzionaria, secondo quanto attesta la chiusura del testo. Nel congedarsi dai lettori Di Falco si scaglia infatti contro i «pedanti» oltre che per le critiche da loro rivolte, in ossequio al magistero di Bembo, verso il «parlare molto corrotto, et irregolare»[2]  di Dante, per il fastidio con cui guardavano ad Ariosto: «il quale grande Ariosto, se per disaventura ad alcuno ch’ha lo stomaco acetoso non piace, da quinci innanzi io dico il Rimario, ch’è cibo e pabolo de studiosi, non esser fatto per tale stomaco indigesto».[3]

L’incidenza del Rimario del Di Falco è stata cospicua: il più noto e diffuso Rimario della tradizione letteraria italiana, compilato nel 1559 da Girolamo Ruscelli e ristampato ininterrottamente sino alla metà dell’Ottocento, «monumento» e «compagno inseparabile per generazioni» di aspiranti lirici,[4] è infatti dichiaratamente costruito sulla sua base. La difesa di Dante e Ariosto quali autori canonici del volgare letterario prosegue in un’altra operetta del Di Falco, che intendeva accreditare l’autore del Furioso presso la comunità dei «dotti», i quali a un «bel vocabolo» volgare continuavano a preferire il corrispondente latino: «in che Ariosto è stato giudiciosissimo, che potendo dire una parola al modo hora gia detto, la disse latinamente, come moltissime n’ho raccolte ne la Apologia di Dante difeso da noi da petulantissimi studenti».[5]

Questa «Apologia di Dante», progettata dunque insieme anche come “apologia di Ariosto”, è stata a lungo ritenuta perduta.[6] In realtà, almeno in parte assemblata già negli anni in cui veniva composto il Rimario, fu stampata dopo il 1539 sotto un titolo diverso, che pone immediatamente sotto i riflettori l’autore del Furioso: La dichiaratione de molti luoghi dubbiosi d’Ariosto e d’alquanti del Petrarca. Escusation fatta in favor di Dante per Benedetto di Falco Napolitano.[7] La suddivisione interna dell’opuscolo riproduce con taglio più netto il canone proposto nel Rimario. L’opuscolo si apre infatti con un capitolo intitolato Dell’Ariosto, cui seguono una sezione dedicata a Petrarca e la Escusation fatta in favor di Dante; quest’ultima contiene anche alcune pagine sulle Parole dal Boccaccio disusate. Dunque Ariosto viene posto ancora una volta in continuità con le Tre Corone, ma in posizione privilegiata: a lui vengono consacrati infatti non solo la sezione introduttiva e più ampia del libello, ma la parte centrale dell’Escusatione, rubricata sotto il titolo Parole latine usate d’Ariosto (quelle «parole latine» il cui catalogo era stato a beneficio dei dotti già compilato e diffuso negli anni del Rimario), e il congedo: l’opuscolo si chiude con i Modi di parlare leggiadri d’Ariosto.

La posizione del Di Falco, che già nella prima metà degli anni Trenta accosta Ariosto con pari dignità alla triade Petrarca-Boccaccio-Dante, non è a Napoli isolata. Nel 1536 un suo amico e sodale, il letterato, poeta e maestro Fabrizio Luna,[8] in uno dei primi vocabolari del volgare italiano, stampato a Napoli dal Sultzbach, propugnava il nuovo canone sin dal frontespizio: il Vocabulario di cinquemila vocabuli Toschi non men oscuri che utili e necessarij del Furioso, Boccaccio, Petrarca e Dante, nuovamente dechiarati e raccolti da Fabricio Luna per alfabeta ad utilità di chi legge, scrive e favella. Salta agli occhi la struttura asimmetrica del titolo, che propone non quattro autori ma tre autori e un testo, che per di più viene citato per primo. Il processo di canonizzazione del Furioso come classico moderno risulta dunque a Napoli evidente, tanto più se si confronta il Vocabulario luniano con le lessicografie coeve, da Le tre fontane di Nicolò Liburnio (1526) al Vocabolario, con «ispositioni di molti luoghi di Dante, del Petrarca et del Boccaccio», di Alberto Acarisio (1543). Per Luna la presenza anche di Ariosto è indispensabile: considera un dato di fatto che «la perfettion» della lingua «riluce e splende» nell’opera di «quattro dottori», citati in quest’ordine: Ariosto, Boccaccio, Petrarca e Dante.[9] Colpisce inoltre la frequenza, tanto alta da escludere la casualità, con cui nei testi di Luna e Di Falco il nome di Ariosto viene preceduto dagli aggettivi «grande» o «nostro», mentre privi di aggettivi si presentano i nomi degli autori già percepiti come classici.

La passione per il Furioso, da lui immediatamente assunto al rango di classico moderno, conduce Di Falco ad anticipare anche un’altra via per la quale Ariosto diverrà autore canonico: la sua autorità in materia d’amore.[10] Sul finire del secolo, nel «ragionamento secondo» del trattato intitolato Della poesia romanzesca, overo delle difese del Furioso, Giuseppe Malatesta avrebbe addirittura sostenuto la superiorità di Ariosto rispetto a Petrarca nella trattazione della tematica amorosa.[11] Ma già nel Trattato di amore, dato alle stampe a Napoli nel 1538,[12] Di Falco adopera quel che definisce «il nostro Ariosto»[13] come autorità in «materia amorosa», accostando i suoi «detti» a quelli dei «Poeti illustri e chiari, o d’alcun dicitor soave e noto»[14], da Teocrito, che l’umanista cita in greco, a Platone, chiamato in causa nel capitolo dedicato «all’amor divino», a Petrarca, che ha naturalmente larghissima presenza. Di Falco fa assumere così una curvatura diversa a una tradizione consolidata nell’ambiente napoletano, dove l’interesse verso Petrarca si era accoppiato con «l’attenzione alla problematica filosofica dell’amore» in trattati quali l’Amatorium di Jacopo Mazza (1517) o il più importante De amore di Agostino Nifo (1529).[15] Ariosto viene citato in particolare nella sezione dedicata agli «effetti d’Amore», ma anche per mostrare la differenza tra amore «divino» e «mondano»: «Ma l’Amor di queste cose mondane ch’è pien d’inganni ha questa propria e innata condition di correspondere al contrario sempre di quel che si ama, come in un gran prencipio di canto cantò Ariosto: Ingiustissimo amor perché sì raro / corrispondenti fai nostri desiri […]».[16]

Sarà però una più nota sodale del Di Falco nella napoletana Accademia degli Incogniti a rileggere sistematicamente tutti i «gran prencìpi» dei canti ariosteschi per trarne nuova scrittura. Laura Terracina sedeva col nome di Febea nell’Accademia degli Incogniti cui apparteneva anche Di Falco;[17] scambia lodi e sonetti con Fabrizio Luna, al quale manda in lettura le sue rime prima della stampa;[18] è intima di Dianora Sanseverino, figlia del principe di Bisignano, lodata dal Domenichi come «nuova Saffo»[19] e autrice prima di lei della tramutazione di un’ottava ariostesca che ha per oggetto il lamento di Bradamante, edita da Lionardo il Furlano in una raccolta del 1545.[20]

Quella che va delineandosi è dunque una società di colti, tra loro legati sia da un gusto comune sia dall’appartenenza all’aristocrazia filospagnola napoletana.[21] Una delle prime tre copie rilegate del poema appena stampato nella sua veste definitiva arrivava prontamente a Napoli, donata da Ariosto al Marchese del Vasto Alfonso d’Avalos, nel testo eternato come difensore de «l’afflitta Italia, della Chiesa e dell’Impero» (xxxiii 48), cognato di Vittoria Colonna, a sua volta presentata nel Furioso come modello di donna e di poetessa; quella stessa Colonna elogiatissima dalla Terracina[22] e da Fabrizio Luna, che tra l’altro nel Vocabulario ne tramanda la Pìstola in versi del 1512. Tenendo conto anche dell’impianto fortemente celebrativo dei testi terraciniani, pare dunque si possa concordare con chi, riferendosi a versanti altri ma a questo contigui, ha ipotizzato che l’entourage d’Avalos-Colonna fosse interessato ad incrementare la diffusione del Furioso «non solo per i suoi innegabili pregi letterari, ma anche perché i solenni encomi guadagnati dalle due famiglie, in un’opera di ampia diffusione, ne rinsaldavano il prestigio anche nel Regno».[23]

L’esperienza della Terracina conferma la presenza di Napoli come centro tutt’altro che periferico nella storia della canonizzazione del Furioso. La poetessa aveva già nelle sue prime Rime, edite da Giolito nel 1548, incluso tramutazioni di ottave ariostesche nella forma di lamenti pronunciati da Sacripante, Rodomonte, Isabella e Bradamante. In contatto, attraverso la mediazione di Marcantonio Passero, con Domenichi e Dolce, pubblica poi ancora da Giolito nel 1549 il Discorso sopra il principio di tutti i canti d’Orlando Furioso. Il testo viene stampato dunque dall’editore che, è noto, servendosi proprio della collaborazione del Dolce pubblica dal ’42 il Furioso come «nuovo classico»[24] e come repertorio di exempla utili per «imparar quello che per noi fuggire e seguitare si debbia».[25] L’accoppiata Dolce-Giolito può sfruttare il Discorso della Terracina come riprova in azione dell’efficacia di questa lettura; e assume forse maggior rilievo, se letto anche in questa chiave, il ruolo paradigmatico assegnato da Virginia Cox, nel suo repertorio di donne scrittrici, proprio alla Terracina, per illustrare, fuori dagli stereotipi, la funzione culturale  svolta dalle letterate nel periodo in esame.[26]

Le scene di apertura dei canti del Furioso erano al centro del dibattito contemporaneo: sugli interventi del narratore negli esordi si concentravano infatti, in nome delle censure rivolte nella Poetica all’epico che parla ‘in persona propria’, molte delle critiche degli aristotelici. Sul versante opposto, per avallare una lettura in chiave morale e didattica del testo, le allegorie poste in principio di ciascun canto dal Dolce attingevano di preferenza proprio alle ottave incipitarie, deposito privilegiato, spesso in forma di sentenze, della riflessione moralistica dell’autore. Il Discorso sopra il principio di tutti i canti d’Orlando Furioso risulta allora strumento formidabile per mostrare come i tanto discussi esordi possano costituire zone testuali tra le più feconde per l’imitazione. I quarantasei canti in ottave del Discorso sono costruiti infatti ognuno sulla prima ottava del corrispondente canto del Furioso, secondo il procedimento della tramutazione, con i versi del modello prelevati e incastonati in chiusura delle nuove stanze.

La Terracina avvalora una lettura esclusivamente ‘seria’ del Furioso, adottando quelle «strategie di annichilazione» individuate da Hempfer, «che escludono dati […] contrastanti» con il modello interpretativo di volta in volta applicato al poema.[27] Il testo esce nello stesso anno in cui Simone Fórnari pubblica a Firenze la prima parte della sua Spositione sopra l’Orlando Furioso, con un ampio commento ad ogni canto in cui prevale la componente didascalico-moralistica.[28] Vedono dunque la luce contemporaneamente il primo commento organico e autonomo, quella Spositione da cui Weinberg faceva partire – in ritardo – il processo di innalzamento del Furioso a classico,[29] e un’opera che si presenta come Discorso, con vocabolo cioè connotato in senso esplicativo o esegetico (non per caso sono state rilevate numerose affinità con la tecnica spagnola della glosa, caratterizzata da iterazione e amplificazione di lessico e contenuti del tema),[30] ma che questa istanza esegetica attuava attraverso la riscrittura. Il Furioso viene in questo modo dalla Terracina e dai suoi sponsor, se si può dire così, canonizzato al quadrato: in quanto testo meritevole della costruzione di un discorso, ma anche come fonte che – al pari dei classici – produce nuova scrittura.

Un dato rivelatore conferma che la ricezione del testo ariostesco fu di fatto influenzata dalla riscrittura terraciniana: l’adozione del Discorso, registrata da Paul Grendler,[31] in alcune scuole cinquecentesche, come guida al Furioso o come sostitutivo si direbbe oggi ‘politicamente corretto’ del testo, inaugurazione precoce dunque della tradizione censoria delle edizioni «recate ad uso della gioventù»; diffusissima sarà nell’Ottocento, ad esempio, quella approntata dall’abate veronese Gioacchino Avesani, che riscrisse centinaia di versi giudicati licenziosi o diseducativi.[32]

Il Discorso si presenta anche nella confezione paratestuale con voluti rimandi al modello, ascrivibili quasi certamente al lavoro svolto nell’officina dello stampatore Giolito: vengono infatti meccanicamente riusate le illustrazioni della giolitina del Furioso. Si tratta certo anche di strategie di mercato (Deanna Shemek ha scorto in una confezione così connotata la volontà di sfruttare l’effetto-sequel)[33] ma soprattutto di strategie di accreditamento di un testo il cui statuto era ancora oggetto di discussione. In questa prospettiva l’apporto della Terracina, poetessa tra le più note della sua generazione, fu dalle parti in causa ritenuto essenziale. Lo conferma, a distanza di quasi due decenni dal primo e fortunatissimo Discorso, lo spiegamento di forze messo in campo, per convincerla a elaborarne uno nuovo, dal Valvassori, dall’editore cioè impegnato in una nuova stagione di edizioni del Furioso caratterizzate dall’accentuazione della lettura allegorico-moralizzante. Nella dedicatoria la poetessa ricorda infatti la scaturigine del testo, edito nel 1567, con dovizia di particolari che, sebbene inclusi in un contesto ad alto gradiente retorico, non c’è ragione di non ritenere affidabili:

Venuto in Napoli M. Luigi Valvassori pregò il S. Polidoro Terracina, che mi dovesse pregare, anzi, se possibil fosse, sforzarmi, ch’io dovessi seguitar di far i discorsi sopra le seconde stanze de i principii de i canti del Furioso. […] Essendo dunque pregata dal detto S. P. c’havessi posto da parte ogni deliberatione, et essendo, sapete, le preghiere de gl’huomini espressi comandamenti alle lor donne, mi fu forza contra ogni mia voglia di seguire il voler suo.[34]

Ed è interessante, a dimostrazione della volontà di usare i Discorsi anche come strumento di conferma in atto della linea editoriale dello stampatore di turno e del suo entourage, notare che il Valvassori, il quale ristampa in unico volume sia la prima parte dei Discorsi, già edita, sia la seconda inedita, riusa per entrambe (ripetendole) le tavole della propria edizione del Furioso.

I Discorsi della Terracina vanno dunque intesi, e in questo risiede la loro importanza in termini di storia della cultura, come l’esito della fusione di due linee: una prima che si può indicare come linea Giolito-Valvassori, animata, sia pure con modalità differenti, dalla necessità di legittimazione moralistica del testo, e una seconda più specificamente napoletana che – come si è visto –  lavora per accreditare Ariosto come autore classico della letteratura e della lingua volgare al pari di Petrarca. Sintesi innovativa, che trova riscontro anche nella costruzione dei Discorsi, nei quali l’impianto strutturalmente ariostesco si sovrappone a una elocutio di chiara matrice petrarchistica, tanto che si è potuto parlare di «‘liricizzazione’ dell’ottava narrativa ariostesca».[35] D’altra parte le porzioni di testo selezionate ben si prestavano a un’operazione di questo tipo, dal momento che «gli esordi» si costituiscono come «zone predilette per l’accumulo di stilemi, costrutti e citazioni petrarcheschi».[36]

La grande fortuna del Furioso a Napoli continuerà sino alla pubblicazione della Liberata e, con peculiari declinazioni, anche oltre. Si ricordino almeno due protagonisti della letteratura napoletana – e non solo – della seconda metà del Cinquecento: Luigi Tansillo, intimo della Terracina,  le cui Lagrime erano state già dai contemporanei collocate «nell’arco della tradizione ariostesca»,[37] e Tomaso Costo, che delle Lagrime tansilliane si farà editore in principio del nuovo secolo, autore nel 1582 del Pianto di Ruggero,[38] riscrittura di un episodio del Furioso che dal modello «toglie non solo immagini ma intere locuzioni»[39].

Sullo sfondo del contesto che qui si è sommariamente ricostruito si staglia, e diviene meglio decifrabile, una delle figure più affascinanti tratteggiate nelle Chroniques italiennes: la bellissima Violante di Cardona, «di una famiglia originaria spagnola, appartenente all’alta nobiltà di Napoli», divenuta, alla metà degli anni Cinquanta, duchessa di Palliano. La nobildonna, racconta infatti lo Stendhal pseudo-traduttore di una vecchia cronaca del 1566, «sapeva a memoria e recitava con grazia infinita», dinanzi alla «splendida corte» frequentata dai «giovani delle principali famiglie napoletane», «il mirabile Orlando di messer Ludovico Ariosto».[40]

 

 

 

[1] Rimario del Falco, Napoli, Mathio Cauze da Brescia, 1535.

[2] Rimario del Falco, cit., c. biiv.

[3] Ivi, c. Liv.

[4] Cfr. A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del classicismo, Modena, Panini, 1991, p. 124. Anche Quondam, nelle importanti pagine dedicate al Rimario del Ruscelli (pp. 123-132), cita di Falco una sola volta (p. 131), e nella veste di «precedente» «demolito» dall’autore.

[5] Rimario del Falco, cit., c. biiv.

[6] Ha ripetuto quanto i biografi meno avvertiti del di Falco hanno sostenuto anche M. Favaro, Ariosto nella trattatistica amorosa del Cinquecento e del primo Seicento, in «Italianistica», XXXVII, 3, 2008, p. 138, n. 1.

[7] L’opuscolo, non datato, è collocabile dopo il marzo del 1539 (come ha ben notato V. Tisano, Dante, Bembo e la grammatica volgare del Cinquecento in uno sconosciuto opuscolo del napoletano Benedetto di Falco, in «Rivista di letteratura italiana», VIII, 3, 1990, p. 601 n.) in virtù del riferimento a Bembo come «Cardinale».

[8] All’amicizia tra Luna e di Falco, attestata anche nel Vocabulario, fa cenno A. Borzelli, Nel 500 napolitano. Sannazaro-Luna-Caracciolo-Fumia, Napoli, Tipografia Pontificia degli Artigianelli, 1941, p. 22.

[9] Vocabulario di cinquemila Vocabuli Toschi non men oscuri che utili e necessarij del furioso, Boccaccio, Petrarcha e Dante nuovamente dechiarati e raccolti da Fabricio Luna per alfabeta ad utilità di chi legge, scrive e favella, Napoli, G. Sultzbach, 1536, c. Aiiv.

[10] Su questo aspetto, si veda M. Favaro, Ariosto nella trattatistica amorosa del Cinquecento e del primo Seicento, cit.

[11] G. Malatesta, Della poesia romanzesca, overo delle difese del Furioso. Ragionamento Secondo [e terzo], Roma, Faciotto, 1596. Il passaggio è citato e commentato anche da a K. W. Hempfer, Letture discrepanti. La ricezione dell’Orlando Furioso nel Cinquecento. Lo studio della ricezione storica come euristica dell’interpretazione, Modena, Franco Cosimo Panini Editore, 2004, p. 195.

[12] Trattato di amore per Messer Benedetto di Falco Napolitano alla Eccellente sua Segnora, la Segnora Faustina Carrafa Contessa di Pacentro, Napoli, G. Sultzbach, 1538.

[13] Ivi, c. Iir.

[14] La citazione deriva dal Prohemio (ivi, c. Aiiiiv).

[15] Cfr. N. Di Blasi e A. Varvaro, Napoli e l’Italia meridionale, in Letteratura italiana, dir. A. Asor Rosa, Storia e geografia, vol. II, L’età moderna, to. I, Torino, Einaudi, 1988, p. 306.

[16] B. di Falco, Trattato di amore, cit., c. Iiv.

[17] Per un completo (anche se in parte datato) profilo bio-bibliografico della Terracina, cfr. L. Maroi, Laura Terracina, poetessa napoletana del secolo XVI, Napoli, Perrella, 1913; e si veda anche il ritratto da Benedetto Croce incluso nelle sue Storie e leggende napoletane, ora nell’ed. a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1990.

[18] Il dato si evince da uno dei componimenti inclusi nelle Prime rime, indirizzato al Luna («Se le basse opre mie voi letto avete, / la colpa è sol di Marco Antonio nostro»): cfr. L. Montella, Una poetessa del Rinascimento: Laura Terracina. Con le None rime inedite, Salerno, Edisud, 1993, p. 11.

[19] Cfr. Lodi di dame napoletane del secolo decimosesto dall’“Amor prigioniero” di Mario Di Leo. Con notizie ed estratti di altri poemetti sincroni di simile argomento, a cura di G. Ceci e B. Croce, Napoli, 1894, p. 35.

[20] Stanze sopra una stanza di messer Ludovico Ariosto, quale sono sta [sic] fatte dalla figliuola del Principe di Bissignano chiamata la signora Dianora, in Stanze Transmutate dell’Ariosto con una bellissima Canzone et altre cose pastorale, e con una copia del concilio generale fatto el primo giorno di Maggio dalla Dea Venere, e dal figliuol Cupido, con tutto il choro delli Dei, ne l’Isola Cittarea mandata al loco sacro delle Sante muse alla cademia sesta de Spiriti Gentili, Per Leonardo detto il Furlano, et il Ferrarese compagni, 1545.

[21] Questo aspetto è rimarcato da R. Casapullo, Contatti metrici fra Spagna e Italia: Laura Terracina e la tecnica della glosa, Atti del XXI Congresso Internazionale di Linguistica e Filologia Romanza (Università di Palermo, 18-24 sett. 1995), a cura di G. Ruffino, vol. IV, Tübingen, Niemeyer, 1998, p. 376.

[22] Cfr., ad esempio, il sonetto che elogia «l’illus. Donna Vittoria Colonna» per il suo «stil dolce e sereno» e per il suo essere «splendor de la Natura / colma di gratie, e d’honorati modi», incluso, con altre rime, in chiusura del primo Discorso (leggo dall’edizione veneziana stampata da Domenico Farri, 1560, c. 79r).

[23] T. R. Toscano, Letterati corti accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2000, p. 108.

[24] Cfr. D. Javitch, Ariosto classico. La canonizzazione dell’Orlando Furioso, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 52 sgg.

[25] Nella lettera d’apertura indirizzata al Delfino di Francia l’editore si sofferma, per legittimarlo, sull’utilità morale del poema, al pari dei classici dell’antichità (Omero e Virgilio) leggibile anche come serbatoio di exempla da cui trarre insegnamenti morali: «non è libro veruno, dal quale et con più frutto, et con maggior diletto imparar si possa quello che per noi fuggire e seguitare si debbia».

[26] V. Cox, Women’s writing in Italy (1400-1650), Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2008.

[27] Cfr. K. W. Hempfer, Letture discrepanti, cit., pp. 18-20.

[28] Sul testo del Fórnari, cfr. G. Barbuto, Il primo commento all’Orlando Furioso e l’edificazione del modello ariostesco, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli, vol. XXVI, 1983-1984, pp. 194-227.

[29] Citando il pionieristico lavoro di Bernard Weinberg (A history of literary criticism in the Italian Renaissance, Chicago, The Chicago University Press, 1961, vol. II, pp. 954-957) anche Giancarlo Mazzacurati giudicava la Spositione del Fórnari lavoro esegetico «che rendeva precocemente “classico” l’Ariosto»: Varietà e digressione. Il laboratorio ariostesco nella trasmissione dei «generi», in Id., Rinascimenti in transito, Roma, Bulzoni, 1996, p. 66 n.

[30] Cfr. R. Casapullo,  Contatti metrici fra Spagna e Italia, cit.

[31] P. F. Grendler, La scuola nel Rinascimento italiano, Bari, Laterza, 1991, pp. 321-322. Cfr., per questo aspetto, le osservazioni di P. Cosentino, Sulla fortuna dei proemi ariosteschi: il Discorso sopra al principio di tutti i canti d’Orlando Furioso di Laura Terracina, in Diffusion et reception du genre chevaleresque, Actes du colloque des 17 et 18 octobre 2003, réunis par J.-L. Nardone, «Collection de l’E.C.R.I.T.», 2005, n. 10, p. 140.

[32] Cfr. infra, cap. VII.

[33] Cfr. D. Shemek, Dame Erranti. Donne e trasgressione sociale nell’Italia del Rinascimento, Mantova, Tre Lune Edizioni, 2003, p. 165.

[34] La Seconda parte de’ Discorsi sopra le seconde stanze de’ canti d’Orlando Furioso, Della S. Laura Terracina, detta nell’Accademia degl’Incogniti, Febea, Venezia, Per Gio. Andrea Valvassori detto Guadagnino, 1567, cc. AA2 r e v.

[35] P. Cosentino, Sulla fortuna dei proemi ariosteschi, cit., p. 141.

[36] M. C. Cabani, Fra omaggio e parodia. Petrarca e petrarchismo nel «Furioso», Pisa, Nistri-Lischi, 1990, p. 246.

[37] Cfr. A. Quondam, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Bari, Laterza, 1975, p. 237.

[38] Il Pianto di Ruggiero di Tomaso Costo, da lui medesimo corretto migliorato e ampliato, in Napoli, appresso Gio. Battista Cappelli, 1582.

[39] G. Fumagalli, La fortuna dell’Orlando Furioso in Italia nel secolo XVI, Ferrara, Stabilimento Tipografico dott. G. Zuffi, 1910, p. 133. Sulla riscrittura del Costo cfr. S. Capuozzo, Variazioni su un tema ariostesco. ‘Il pianto di Ruggiero’ di Tomaso Costo, «Filologia e Critica», XXXIII, 1, 2008, pp. 120-137.

[40] Stendhal, Cronache italiane, trad. di M. Bellonci e G. Leto, Milano, Mondadori, 1990, p. 11.

 

Gianluca Genovese, “Ariosto a Napoli. Vicende della ricezione del Furioso negli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento”, en “Tra mille carte vive ancora”. Ricezione del Furioso tra immagini e parole, a cura di L. Bolzoni, Lucca, Pacini Fazzi, 2010, pp. 339-356.

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https://www.academia.edu/7872437/Ariosto_a_Napoli._Vicende_della_ricezione_del_Furioso_negli_anni_Trenta_e_Quaranta_del_Cinquecento

Bibliografía Secundaria