Biografía
Iacopo Sannazaro (Nápoles, 1456 – ibíd., 1530) nació en el seno de una familia noble. Hacia 1475, solía asistir al magisterio de Giuniano Maio y, además, Giovanni Pontano le acogió en la Academia Pontaniana con el nombre de Actius Syncerus. En 1481, entró en la corte del rey Federico, a quien acompaño en su exilió a Francia en 1501 pero volvió a Nápoles tras su muerte en 1504. La obra más importante de Sannazaro es la Arcadia (1504), una novela pastoril escrita en lengua vulgar, gran ejemplo del Humanismo napolitano de la época. A parte de la Arcadia, son reconocidísimas sus Rime, sus Egloghe piscatorie y su De partu Virginis.
Más información en: http://www.treccani.it/enciclopedia/iacopo-sannazzaro; https://es.wikipedia.org/wiki/Jacopo_Sannazaro; https://www.wikidata.org/wiki/Q510621.
L’Umanesimo napoletano, avviato col favore dei principi aragonesi alla metà del sec. XV, e protrattosi nei primi decenni del secolo successivo durante il Viceregno spagnolo, ebbe in Iacopo Sannzazaro il suo più autentico protagonista, perché questi rappresentò un modello di classicismo sia in lingua latina sia in lingua volgare nel trapasso critico della cultura dall’egemonia del latino umanistico all’egemonia del toscano. Rispetto a Giovanni Pontano, col quale formò una coppia inseparabile essendo il più autorevole fra i soci dell’Accademia, immortalato nel dialogo Actius come il massimo cultore della poesia virgiliana, egli si distinse per aver sviluppato in maniera originale la bucolica volgare, per aver recuperato e rinnovato la prosa e la poesia idillica del Boccaccio, la prosa giovanil dantesca, la poesia stilnovistica e petrarchesca, sviluppando il petrarchismo quattrocentesco in concomitanza con la riforma del Bembo, e per aver inventato l’epica religiosa al tempo del Rinascimento cristiano dei papi medicei.
In Arcadia vii il personaggio autobiografico di Azio Sincero racconta di discendere da una nobile stirpe trapiantata a Napoli al seguito di Carlo III di Durazzo dalla Lomellina (non senza un accenno a favolose origini spagnole), e favorita fino alla morte di Ladislao con donazioni di feudi in Campania e Lucania. Alla loro memoria cortese e cavalleresca il poeta si riferirà con riguardo. Nell’ Arcadia dedicherà un ricordo sia al padre, col nome bucolico di Androgeo, sia alla madre Masella, da lui mitizzata col nome di Massilia, e in morte ricordata con onore anche dall’umanista Gabriele Altilio, il quale per primo cita il soprannome classicheggiante con cui Iacopo figurerà nell’Accademia, latinizzazione del familiare Iacobaccio ma con riferimento ad Apollo Actius, seguito da un appellativo qualificante il suo ben noto carattere, Syncerus (schietto). In effetti il padre Cola fu iscritto al seggio dei nobili di Portanuova, ma dopo la sua morte la madre, espropriata delle più laute risorse di cui godeva, una miniera, si ritirò in provincia di Salerno e poi di Caserta, dove Iacopo trascorse un periodo imprecisato dell’infanzia, che deve aver avuto una certa importanza nell’ideazione dell’esilio favoloso dell’Arcadia, e nella vaga memoria delle insidie e delle tristezze da cui pur è attraversato il sogno utopico della mitica Arcadia.
Già in questa prima adolescenza ebbe maestri, nella sua educazione umanistica, due notevoli personaggi dello Studio napoletano come Luca Crasso per il corso di grammatica e Giuniano Maio per il corso di retorica (ricordati rispettivamente nelle elegie I 1 e II 7), sicché intorno al 1480 poté cominciare a spendere le sue qualità letterarie e prestare i suoi servigi a corte, ora allestendo apparati scenici per le nozze di Federico del Balzo e Costanza d’Avalos, ora affiancando Alfonso Duca di Calabria anche nelle imprese militari. Lo seguì infatti nelle spedizioni per la riconquista di Otranto (1480), per la guerra di Ferrara (1483-1484), per quella contro Innocenzo VIII alleato di baroni ribelli (1485-86), nel viaggio in Puglia del 1489. La sua fisionomia di nobile dedito alle armi e alle lettere, e l’orizzonte cortese della sua formazione spiegano come a lui Giovanni Pontano dedicasse il libro sulla ‘liberalità’, e come egli si legasse particolarmente, fra i principi aragonesi, a Federico, che una lunga permanenza nel clima culturale della corte francese di Borgogna aveva reso più amante degli studi che del suo ruolo principesco, leale fino al punto di non accettare l’offerta del regno da parte dei baroni ribelli e pronto a cedere i suoi diritti regali ai contendenti francesi nella guerra per la conquista di Napoli, recandosi in esilio in Francia. Da lui il Sannazaro ebbe in dono nel 1499 la famosa villa di Mergellina, che diverrà la dimora del poeta dopo il ritorno dall’esilio di Francia, dove aveva scelto di seguire il suo re, e accanto alla quale farà erigere la chiesetta dedicata alla Madonna del Parto in cui sarà sepolto nel 1530.
Il ruolo di poeta cortigiano si manifesterà nell’assunzione di argomenti politici per le feste napoletane, come L’ambasceria del sultano per la celebrazione del carnevale (1490), o La presa di Granada e Il trionfo della Fama per celebrare mediante il genere popolare della farsa i trionfi degli Aragosesi di Spagna imparentati con i suoi re (1492). Ma a testimoniare il rapporto con i sovrani rimangono i carmi che fungono da incipit dei libri II e III delle Elegiae (Ad Alphonsum, Ferdinandi filium, Aragonium, Siciliae regem, II 1; Ad Federicum, Ferdinandi filium Aragonium, Siciliae regem, III 1), e i vari epigrammi dedicati ancora, oltre che ad Alfonso (I 9, 36, 44), allo stesso Federico (I 1, 5, 8, 12, 32; II 1; III 4), cui si rivolgono con ossequio anche alcune delle Rime, e al suo magnifico dono della villa di Mergellina, dove il poeta potrà godere il suo ozio (I 2), e alla cui fonte rivolgerà un nostalgico ricordo dal suo esilio di Francia, dove ha seguito il suo caro re ritrovandovi felicemente il nome della propria famiglia (Sait-Nazaire, presso Nantes, alle foci della Loira, II 58).
D’altra parte nei versi latini si riflettono, accanto a classici motivi d’amore, d’encomio e d’amicizia, umori polemici e finanche pesantemente satirici di ordine politico e morale, come nei carmi epigrammatici scritti per censurare Adriano IV colpevole di lasciare che il Turco muova contro l’Italia (Epigr. III 4), o per compiacersi delle disavventure di Cesare Borgia (I 14, 15) e per la morte di Alessandro VI (II 29), contro il quale egli rivolse un gruppo di epigrammi in parte censurati e riemersi nelle edizioni settecentesche. Testimonianze, queste ultime, accanto a violenti epigrammi contro Poliziano (I 66, 67), di un aspetto polemico della personalità sostanzialmente mite del Sannazaro, documentato da una sarcastica battuta contro il mercato delle indulgenze, attribuitagli da Giovanni Pontano alla fine della prima scena dell’Actius, da lettere in difesa dell’amica Cassandra Marchese contro Leone X, irriverentemente ricordato anche in taluni epigrammi, per il favore accordato all’annullamento del matrimonio fra la nobildonna e Alfonso Castriota, e dalla ben nota distanza tenuta nei confronti dei dominatori spagnoli.
Frattanto la familiarità col gruppo dei letterati che nel centro napoletano si dedicavano alla poesia in volgare, Pietro Iacopo de Iennaro, Perleoni, Gian Francesco Caracciolo, il Cariteo, orienta anche Iacopo Sannazaro verso la composizione di sonetti alla maniera petrarchesca di argomento amoroso e politico e di ecloghe alla maniera soprattutto del de Iennaro; ma già durante la formazione umanistica, che comprese lo studio del greco, egli aveva tradotto gli idilli di Teocrito. Comincia intorno al 1480, con componimenti occasionali, l’ideazione dell’Arcadia, un’opera nuova che raccoglierà nel 1486, in un prosimetro, dieci rime modellate secondo la forma dei moderni carmi bucolici volgari o delle liriche d’impostazione aulica.
Un ruolo decisivo nel recupero organico del genere bucolico aveva già avuto la scuola ferrarese di Guarino Guarini, sia per il consolidamento dell’imitazione virgiliana, sia perché era stato un guariniano, Martino Filetico, a tradurre in latino i sette idilli di Teocrito intorno alla metà del secolo, un testo a sua volta imitato da Virgilio ma carattreizzato da un tono più spiccatamente rustico. Eppure, per il concepimento stesso dell’Arcadia nella sua forma di prosimetro, è necessario ricordare la forma narrativa impressa da Boccaccio all’argomento bucolico, dal livello rusticano di certe novelle del Decameron a quello favoloso e borghese nel quale si svolge la vita dei novellatori, a quello mitologico degli epilli, fino a quello propriamente bucolico di un romanzo pastorale come il cosiddetto Ninfale d’Ameto. Non mancavano di influirvi l’autobiografismo e il simbolismo tradizionali nel genere bucolico, soprattutto il concepimento del mondo pastorale come primitivo, al di qua della storia, semplice fino ad una gradevole e autentica rozzezza in antitesi, o in gara, con la raffinata cultura cittadina.
Scambi culturali e consonanze politiche fra il centro ferrarese e quello napoletano inducono a tener presente anche la notevole esperienza bucolica di Matteo Maria Boiardo, che fra il 1460 e il 1480 passa dalla composizione di dieci ecloghe latine a quella di altrettante volgari, dove già si riflettono gli esperimenti metrici di Francesco Arsocchi da Siena, le cui ecloghe furono pubblicate a Firenze nel 1481 assieme a quelle di Girolamo Benivieni e Jacopo Fiorino da Boninsegni, nonché alla traduzione delle Bucoliche virgiliane di Bernardo Pulci. Collaterale è l’esperienza idillica di Angelo Poliziano, che nel centro fiorentino idoleggia il mondo naturale nelle Stanze, ma trasferisce il mito georgico di Orfeo in una “Favola pastorale”, privilegiando una figura mitica che ritorna nelle battute finali dell’Arcadia sannazariana. A Napoli, dove il de Iennaro aveva cantato soprattutto la decadenza del mondo bucolico, la tradizione classica virgiliana era stata rinnovata dalla presenza di un codice delle ecloghe dei tardi poeti latini Calpurnio e Nemesiano, che il Sannazaro tiene presenti nel crogiuolo delle reminiscenze di cui è composta la sua nuova bucolica.
Occuperanno rispettivamente il primo, il secondo e il sesto posto nell’opera completa una ripresa della prima ecloga virgiliana con Ergasto e Selvaggio in luogo di Titiro e Melibeo, e due canti amebei dove si consolida l’uso della terzina di endecasillabi sdruccioli. Seguirà la composizione di altre ecloghe fino al numero virgiliano di dieci, con il commento narrativo in cui si profila un vero e proprio romanzo autobiografico e un prologo. Un elegante manoscritto di questa redazione fu dedicato a Ippolita Sforza e il testo col titolo Libro pastorale nominato Arcadio fu diffuso e finì per essere stampato da un editore veneziano (1502) senza l’approvazione dell’autore, che se ne dorrà vivamente, affidandosi a Pietro Summonte per un’edizione rivista e completata dall’aggiunta di due ecloghe, provviste di un più ampio commento narrativo, un congedo e il nuovo titolo con cui otterrà un’enorme fortuna secolare ed europea. Il nuovo lavoro, che comportò anche una revisione linguistica destinata a segnare anche un nuovo indirizzo nella storia della scrittura in volgare per tutta la letteratura italiana, si svolse nell’ultimo decennio del secolo e approdò all’edizione del Mayr, a Napoli, nel 1504, ad opera del Summonte, ricordato altrove dal Sannazaro (Epigr. II 9, De Summontii pietate) per i suoi meriti di curatore editoriale (anche le opere degli amici Pontano e Cariteo ebbero infatti le sue cure).
Pur fra i più tipici esempi di opere organicamente strutturate, l’Arcadia va letta tenendo conto delle fasi della composizione, che nel finale sostanzialmente capovolgono il primo impianto. Nella sua struttura definitiva essa si apre, infatti, con un proemio che giustifica la scelta del genere pastorale e accenna all’intenzione di raccogliere, con tutta evidenza sulle orme della Vita nova – fra l’altro il narratore ha otto anni quando conosce la fanciulla amata – una serie di ecloghe per i fedeli della poesia pastorale, e si conclude con un addio Alla Sampogna, cioè con l’abbandono di quel genere per un’esperienza più alta, e comunque diversa. Il racconto però esplicita il suo carattere autobiografico nella settima delle dieci prose della prima redazione di sole dieci ecloghe, dove in una retrospettiva il narratore, rivelandosi come Azio Sincero e identificandosi con lo spettatore delle scene pastorali precedenti, espone le ragioni del proprio allontanamento dalla città, una sorta di esilio che nella decima ecloga fa appena prevedere il desiderio del ritorno nella celebrazione delle arti e delle scienze della lontana città.
Fra le innumerevoli fonti tenute presenti dal poeta, e difficilmente isolabili perché da lui contaminate ma spesso già contaminate alle origini, la decima ecloga di Virgilio sull’esilio di Cornelio Gallo costituisce un punto nevralgico di riferimento per la genesi del romanzo. Nell’Arcadia risuona il nome del selvatico paese dove il poeta latino cercava di dimenticare la sua sofferenza e dove non trova più conforto (Virg., Buc. X 62-64), tornano il fortunato tema già petrarchesco della propria tomba allietata dal pensiero di chi la visiterà ricordando il suo dolore (ivi, 31-34), il topos dei lamenti d’amore incisi sulla corteccia degli alberi (ivi, 53-54). Ma è nelle due parti aggiunte con la revisione che avviene la svolta, si direbbe dal mito della natura al mito della città, attraverso il recupero di un tema derivato da Eneide V, i giochi in onore di Massilia, e di un’altro ispirato a Georgiche IV, la traversata del sottosuolo, nelle viscere della terra coi suoi fiumi e le sue grotte. A questo punto, sotto il velo onirico del racconto è stato difficile identificarne i referenti al di là dei luoghi evocati da certa ben nota onomasica, della figura del dio Sebeto contornato dalle ninfe, il cui pianto rappresenta il gorgoglìo delle fonti del suolo napoletano, ma anche lo stato d‘animo del narratore abbandonato dalla sua Ninfa-guida e ritrovatosi solo in un momento critico della città e della sua stessa vita. Il ricordo della tomba di Partenope e della chiesa di Sant’Agostino Maggiore (simboleggiata da un pastorale ‘tugurio’), dove alla fine Sincero si affaccia sul suolo di Napoli, sono il segno della desolazione e della speranza vissute in quella crisi. Non è un caso che in quegli anni di sussulti politici (la fine della monarchia aragonese non manca infatti di esservi ambiguamente simboleggiata) il rapporto con l’agostiniano Egidio da Viterbo rappresenterà lo sviluppo, in Sannazaro, da una religiosità classicheggiante racchiusa nel paesaggio bucolico ad una religiosità cristiana velata dal linguaggio epico e da significative reminiscenze bucoliche autorizzate dal messaggio evangelico.
Il racconto dell’Arcadia è anche un viaggio alla riscoperta di Virgilio, poeta dei campi, ma anche poeta dei grandi temi della sofferenza e della rigenerazione, della morte e dell’apoteosi. Del resto lo stesso Sannazaro, come Virgilio, aveva avvertito durante la sua esperienza bucolica il problema del superamento dell’umile poesia per la grande tematica dell’epica, dove in effetti approderà dopo l’esperienza di epilli boscherecci come la metamorfosi delle ninfe assalite dai satiri nei Salices. Ma egli si muove fra l’intenzione classicistica di restaurare la purezza, l’autenticità della poesia bucolica, che diventa il mito della semplicità, di una rozzezza primitiva e selvaggia, quasi teorizzato nel proemio, e l’ideale estetico dell’eleganza, della grazia, talora della meraviglia, che sarà il parametro con cui l’Actius pontaniano giudicherà il verso eroico di Virgilio. Né manca nell’Arcadia il senso della natura come luogo del maestoso e dell’orrido. La prime parole del proemio sembrano assumere già questa idea di bellezza sublime. In effetti l’ultima prosa sceglie la tematica orrida del viaggio sotterraneo, non perfettamente in linea con l’idillio bucolico, ma certamente sulle orme virgiliane e dantesche. Nelle ultime pagine è infatti adombrato e trasfigurato, ma condiviso nella sostanza, il mito di Orfeo quando si pensi al tema della poesia come recupero di una ragione di vita dopo l’estremo dolore, argomento dell’ultima ecloga dialogata, dove Barcinio-Cariteo e Summonzio-Summonte ricordano la morte di Filli, evocando la seconda ecloga di Meliseo-Pontano sulla morte della moglie Ariadna-Adriana. In controluce, il percorso petrarchesco dal trionfo della morte a quello dell’eternità, dono della poesia.
La vicenda della composizione spiega anche lo squilibrio fra le prime prose, che serbano ancora il carattere di un pretesto narrativo delle ecloghe, e le successive – a parte quelle aggiunte nell’ultima redazione – , le coppie settima e ottava, nona e decima, dove l’indugio sul racconto e sulla descrizione prevale decisamente. Nella prima di esse, destinata ad una fortuna teatrale, si contrappongono le autobiografie di Sincero e Carino, l’una comprendente un amore infelice e l’altra un amore che conosce un momento drammatico e una soluzione miracolosamente felice. Nella seconda la ricerca di un rimedio d’amore per un pastore sofferente offre l’occasione a due racconti di magia tipica dell’ambiente pastorale, quella nera e quella bianca, rappresentate rispettivamente dagli incantesimi di una maga esperta di pozioni e dalla scienza naturale di un vecchio sacerdote, conoscitore financo delle voci degli uccelli, al quale è affidato anche il compito di mostrare alla compagnia pastorale la sampogna ormai abbandonata a testimoniare la storia conclusa della poesia bucolica e dei suoi fasti.
Le ecloghe che concludono ciascuna prosa seguono la varietas tipica del genere volgare. Quelle costruite sul modello dei canti amebei e strettamente connesse con tutto il corredo e lo sfondo pastorale (I, II, VII, VIII, IX, X) si alternano con vere e proprie canzoni petrarchesche adattate con metaforici segni al contesto pastorale (III, V, VII). Ma la prima, la seconda e la decima sono costituite da un canto a solo, rispettivamente di Ergasto e Montano, che ricorrono al metro della frottola, e di Selvaggio che riporta a sua volta il canto del poeta napoletano Francesco Caracciolo, in parte frottolato, con la rima al mezzo. E come Ergasto, nel quale non senza ragione si è voluto riconoscete una delle proiezioni dell’autore, canta nell’ecloga XI un «a solo» lirico, sia pure in terzine bucoliche, così Montano si presenta esplicitamente come un fine suonatore della sampogna capace di gareggiare con Uranio, indicato come poeta lirico che vive solitario a cielo scoperto, dimentico di sé, e ingaggia con lui una gara i cui temi e il cui ritmo appartengono decisamente all’armonioso livello della poesia lirica. Ed è lo stesso Montano quello che nell’ecloga IX ha tanta sensibilità retorica da accorgersi che la gara fra Elenco e Ofelia, ispirati da Apollo, sta oltrepassando i limiti della poesia pastorale, e potrebbe essere sgradita al dio dei campi. L’ecloga IV fonde il canto amebeo con il metro tipicamente lirico della sestina, l’ecloga XII conclude l’opera nella forma della più classica bucolica, con un omaggio imitativo al Pontano, ma affidando nel bel mezzo una sorta di elegia al poeta Benedetto Gareth nelle vesti bucoliche di Barcinio.
Probabilmente risale alla donazione fatta al Sannazaro da parte di Federico della Villa di Mergellina, una volta compiuta l’esperienza della bucolica volgare, l’idea di trasferire il medesimo genere nel paesaggio marino con le Eclogae piscatoriae. La prima di queste vede infatti Lycidas rammaricarsi di Phyllis, la donna amata, nell’anniversario della sua morte, ricollegandosi in certo qual modo alla conclusione dell’Arcadia, mentre nella seconda Lycon svolge un lamento solitario per Galatea che lo ignora, come il Corydon virgiliano, e la terza varia l’incipit delle Bucoliche: Mopsus, inerte come Titiro, apostrofato da Celadon, ricorda la patenza da Ischia del re con la sua corte e il racconto di chi era tornato da quell’esilio, e cerca di allontanare il dolore con le note di una gara poetica ascoltata sulla riva di Mergellina. La forma delle ultime due, attribuibili sicuramente al periodo del ritorno a Napoli, riprende alcuni modelli virgiliani, il soliloquio di Proteus che canta le antichità napoletane (cfr. il canto di Sileno in Virg., Ecl. VI), che è uno sconsolato augurio rivolto all’ultimo erede degli Aragonesi, residente in Spagna quasi prigioniero, di poter recuperare il suo regno, e l’evocazione della maga Herpylis, dove il canto è intercalato da un ricorrente verso incantato («volvite praecipitem, mea licia, volvite rhombum») come nell’ Ecloga VIII di Virgilio di argomento analogo, e XI dell’Arcadia («Ricominciate, Muse, il vostro canto»), ed è preceduto dalla dedica a Cassandra Marchese.
L’assenza del Sannazaro da Napoli durò dall’ottobre 1501, quando con la corte di Federico, che frattanto aveva abdicato, dopo averlo raggiunto a Ischia partì alla volta della Francia raggiungendo Marsiglia, Lione e quindi Blois, fino all’inizio del 1505. Ma nel 1502 Federico e Sannazaro, che portava già con sé uno dei testi antichi più importanti fra quelli recuperati in Francia, il De reditu suo di Rutilio Namaziano, tornarono per breve tempo a Napoli insieme al re di Francia Luigi XII. Dei codici classici recuperati nel soggiorno francese durante l’esplorazione di antiche biblioteche di monasteri e cattedrali, ora anche più ampiamente e variamente documentata nei cosiddetti ‘Zibaldoni’, ci parla il Summonte nella lettera dedicatoria a Francesco Poderico premessa all’edizione dell’Actius pontaniano: si trattava di un frammento del De piscibus di Ovidio, del Cynegeticon di Grazio Falisco, delle elegie di Claudiano e dell’opera dei poeti cristiani Sedulio e Prudenzio.
Queste scoperte hanno un significato soprattutto riguardo alla svolta che il Sannazaro impresse nel nuovo secolo alla sua poesia procedendo con la novità del genere ‘pescatorio’ e dell’epica sacra, fosse o no prefigurata nella conclusione del romanzo pastorale. Certo la frequentazione di Egidio da Viterbo con la sua religiosità umanistica e insieme apocalittica dovette influire sulla scelta sannazariana di costruire un poema cristiano sulle orme di Virgilio e di Claudiano, dopo la composizione di una De morte Christi lamentatio ad mortales e di inni latini in onore di san Nazaro e san Gaudioso. L’invio a Egidio da Viterbo nel 1521 di una copia integrale del nuovo poema sacro, già annunciato parecchi anni prima e forse destinato nella forma originaria e col titolo di Christias a Leone X già nel 1513, nonché la presenza del frate agostiniano col nome di Aegon fra i pastori convenuti alla grotta, rivelano il senso profondamente religioso del nuovo genere e la continuità con l’ispirazione pastorale reinterpretata nei suoi valori biblici. Inoltre il nuovo titolo, De partu Virginis, che mette in rilievo la centralità della Vergine, la lettera di ringraziamento del Bembo che nello stesso ‘21 per conto del Papa elogia non solo la felice gara con la poesia classica, ma la tempestività di una risposta alla presunzione dei dotti protestanti, la consapevolezza teologica con la quale l’autore sottopose il testo al circolo degli umanisti del fronte irenico, specialmente ad Antonio Seripando, fanno pensare che accompagnasse il poema l’aspettativa di una difesa del Cattolicesimo. Per la cui intellegibilità non deve sfuggire la centralità che nella Chiesa cattolica andava assumendo la Vergine, esente dal peccato originale e perciò sottratta alla morte e ‘assunta’ in cielo (in un quadro dell’Assunta dipinto da Andrea Sabatino nella villa di Bagnuoli di Traiano Cabanilio, dedicatario dei Salices sannazariani, sarebbe stato raffigurato il volto del Sannazaro fra quelli degli apostoli). I tempi di rielaborazione dell’opera, forse – come si è pensato – lo stato d’animo dell’autore impegnato fino al 1518 nella vertenza in difesa di Cassandra Marchese, protrassero l’uscita a stampa dell’opera dopo la morte di Leone X. Il poema fu stampato infatti nel 1526 ad opera del tipografo Antonio Frezza sostenuto dal Duca d’Atri Andrea Matteo Acquaviva, con la dedica al nuovo papa mediceo Clemente VII. L’elogio del Papa, in una lettera di natura tutta retorica a firma di Iacopo Sadoleto, porta la data dell’agosto di quell’anno.
L’impianto e l’esito del poema sono un mirabile esempio del sincretismo classico-cristiano perseguito nel Rinascimento romano. Al centro del poema la descrizione dell’impero universale di Augusto, luogo simbolico della pace, completa la profezia virgiliana dell’ecloga quarta. Il poema fondava la storia sacra sul simmetrico vaticinio del fiume Giordano e di Proteo, il mostro marino che le ecloghe virgiliane e le ecloghe pescatorie conoscevano come detentore di verità; né si piegava alla filologia respingendo il mito cristiano di Virgilio annunciatore di Cristo, anzi lo approfondiva riscoprendo e inverando la favola pagana di Ovidio e Claudiano, cantori del mito di Proserpina rapita dal dio. Del resto perfino luoghi lucreziani venivano rivisitati e rielaborati in chiave cristiana.
Il Sannazaro dedicava intanto le Rime (sonetti, canzoni, madrigali, sestine e capitoli) composte in gran parte prima della fine del secolo precedente, e completamente rivedute entro il 1525 anche dal punto di vista linguistico, com’era avvenuto per l’Arcadia, a Cassandra Marchese. Presso di lei, in un casale di Somma vesuviana, si rifugiava in quell’anno lasciando Napoli per scampare alla peste assieme a Francesco Poderico e Iacopo di Costanzo, l’autore della storia di Napoli cui egli diede il felice consiglio di scriverla in volgare, e presso di lei, nella dimora napoletana, morirà nel 1530. La pubblicazione col titolo di Sonetti e canzoni, usato nell’editoria per i Fragmenta petrarcheschi, avvenne nel 1530, qualche mese dopo la morte del poeta.
La divisione in due parti della Rime, quantunque disuguale, risente probabilmente del modello petrarchesco, specialmente se consideriamo le rispettive liriche iniziali, che trasfigurano il sonetto di pentimento in una riflessione sulla gloria mancata a causa del dolore che ha fatto perdere al poeta il «soave stile» della sua originaria vocazione (Se quel soave stil che da’ primi anni), e la canzone sul consiglio da prendere dopo la morte della persona amata in una riflessione sull’estinzione degli amori giovanili (Spente eran nel mio cor le antiche fiamme). Alternate a rime encomiastiche, politiche, e religiose, quelle d’amore della prima parte sono generalmente rivolte ai primi amori e quelle galanti della seconda parte sono rivolte a Cassandra Marchese. Vi predomina dovunque una vena elegiaca, dove spiccano le figure del sogno, del sonno e della morte, e dove non manca certa leggera sensualità in un tema visibilmente attinto alla recente, fortunata raccolta di Giusto de’ Conti (La bella mano). E tuttavia l’elaborazione in senso petrarchesco del dettato lirico, che si uniformava alla ricerca cinquecentesca di una lingua letteraria nazionale e che spiega la grande fortuna e il gran numero di manoscritti e di edizioni delle Rime, non toglie che la sperimentazione sannazariana si rivolgesse anche a componimenti dialettali di argomento gastronomico, ma anche tra l’umoristico e il truce, che prendevano nome da un cibo locale (Gliuommeri).
Bibliografia primaria
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Francesco Tateo, diciembre 2019
Bibliografía Primaria
Bibliografía Secundaria
- Le opere volgari di m. Iacopo Sanazzaro cioè l’Arcadia, colle annotazioni del Porcacchi, del Sansovino e del Massarengo, le Rime, arricchite di molti componimenti, tratti da codici mss. ed impressi; e le lettere, novellamente aggiunte. Il tutto con somma fatica, e diligenza dal dott. Gio: Antonio Volpi e da Gaetano di lui fratello riveduto, corretto ed illustrato - 1723
- Actii Synceri Poemata - 1731
- L’Arcadia di J. S. secondo i manoscritti e le prime stampe, con note ed introduzione di M. Scherillo - 1888
- Opere di Iacopo Sannazaro - 1952
- Opere volgari - 1961
- Antologia dalle opere latine di Jacopo Sannazaro - 1964
- De Partu Virginis - 1988
- Arcadia - 1990
- Arcadia - 1990
- Arcadia - 1993
- Lo gliommero napoletano “Licinio, se ‘l mio inzegno” - 1999
- Arcadia / L'Arcadie - 2004
- Arcadia - 2004
- Arcadia / L’Arcadie, édition critique par Francesco Erspamer, Introduction, traduction, notes et tables par Gérard Marino - 2004
- Actii Synceri Sannazarii De partu Virginis - 2004
- Latin Poetry - 2009
- Epigrammi di I. Sannazaro secondo l’edizione del 1535 - 2011
- Arcadia - 2013