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Filocalo da Troia, Giovanni Tommaso

  • Troiano

Biografía

Nacido alrededor de 1497, este escritor humanista se instaló temprano en la ciudad de la Sirena. Comenzó a enseñar humanidades en el Studio di Napoli, uno de los centros de producción cultural más importantes de la ciudad. Pasó pronto al servicio de la prestigiosa familia d’Ávalos, en cuyo círculo se insertan sus composiciones celebrativas y cortesanas como la Canzone del Philocolo recitata in Napoli, dirigida a Alfonso d’Ávalos (y recitada en su presencia en 1531) o el Genethliacum carmen (impreso en 1533 en Nápoles), una obra compuesta con motivo de la maternidad de la esposa del marqués, Maria d’Aragona, que si bien no destaca por su interés literario, resulta cuanto menos relevante desde un punto de vista documental al traer una serie de nombres vinculados a la Academia Pontaniana. Murió hacia 1561.

Más información en: http://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-tommaso-filocalo_(Dizionario-Biografico)/.

 

 

“Filocalo Troiano. — Quasi coetano del Fascitelli è un altro maestro di scuola: Giovani Filocalo, nato intorno al 1497 in Troia, nelle Puglie, e trasferitosi giovanissimo a Napoli per continuarvi gli studî letterari. Per ben ventiquattro anni insegnò privatamente; infine, ottenne una cattedra di retorica nello Studio. A questa attività d’insegnante è legata l’opera sua erudita, tutta compresa in alcuni comenti e parafrasi di Persio, di Plinio seniore, di Orazio; oltre un corso sulle Silvae di Stazio e un grozzo zibaldone manoscritto di estratti da classici latini e greci, visto dal Chioccarelli. Ma di tanta roba non resta che ricordo nei vecchi storici; e così pure di cento epigrammi, formanti un poemetto, Avalidos, in onore di Alfonso d’Avalos; e di una Cantio, in volgare recitata in Napoli davanti a questo stesso, e stampata in Roma nel 1530. Conserviamo, invece, il Carmen nuptiale in Fabritii Maramauri et Portiae Cantelmi nuptiis, il quale è interessantissimo non solo nei riguardi del Marmaldo, ma anche per tutti gli umanisti che vi son ricordati, vivi o già morti, sì che si son potuti definire, in base a questo documento, molti dati biografici inesatti. E abbiamo ancora un Carmen genethliacum, dedicato a Costanza d’Avalos, e stampato a Napoli dal Sultzbach nel 1533; ristampato e tradotto dal Meola, certamente a Napoli, ma senza indicazione cronica. Infine, il cod. vat. lat. 2836 (f. 225) ci conserva tre epigrammi del Filocalo sulla morte del Carbone, e che recentemente ha pubblicati il de Montera. A sua volta, il Carbone cantò il Filocalo, nella sua nota elegia al Nifo:

Nec te, Philocale, excipiam, cui munere sancto
Aonium lepido profluit ore melos;
Et sive Avalidas celebras, seu scribis amores,
Nos facit attonitos illud et illud opus.

(vv. 65 – 68)

Il Filocalo dovè morire in Napoli intorno al 1561, e fu sepolto —pare— in s. Maria del Parto a Margellina, presso la tomba del Sannazaro.”

En: Altamura, Antonio. L’umanesimo nel mezzogiorno d’Italia. Firenze: Bibliopolis, Libreria Antiquaria Editrice, 1941, pp. 141 – 142.

 

 

“Giovanni Tommaso Filocalo nacque a Troia, in Puglia, antica colonia greca, in territorio fertile e ricco, feudo nel Cinquecento dei Cavaniglia e dei d’Avalos. Non abbiamo nessun documento per conoscere con esatezza la sua data di nascita. Si è tentato di fissarla per congetture, ma ritengo che anche quella proposta dal Meola, il 1490, e che potrebbe apparire la più accettabile, debba essere ancora corretta. I versi che il Carbone dedica al poeta troiano nell’Elegia al Nifo, la cui datazione, dopo le osservazioni del Percopo e le mie considerazioni, appare ormai certa, indicano che in quell’anno il Filocalo era già autore di opere poetiche dedicate agli Avalos e di liriche amorose, che lo avevano imposto all’attenzione dei sodali. Ora se si assume come vera la data del 1490, si dovrebbe supporre che il Filocalo, a quell’epoca, nell 1512, avesse solo ventidue anni, il che è poco versimile. È necessario quindi retrodatare la sua nascita di alcuni anni. Senza dubbio il Filocalo si è reso noto nel circolo negli accademici in giovane età. Nella sesta lettera del I libro delle Epistole, il Gravina così scrive al conte di Palena: «Se mi offrirai miele ibleo, zucchero di Cipro, vino o nettare di Creta o di Palermo, o la stessa dolcezza, o anche una qualsiasi altra cosa dolcissima, che al di là della dolcezza, o anche una immaginata da mente umana, niente sarà per me più dolce della tua amicizia. Conservami solo questa, ti prego, carissimo Paleno, per cui già da tempo ma hai tra i tuoi più intimi. E questi dolci doni regalerai ai Filocali e ai Minturni, ai giovani intelligenti e colti, che ancora non sono al tuo servizio Saluti.»

È facile arguire che il Filocalo dovette lasciare Troia in età molto giovane, forse da adolescente, per trasferirsi a Napoli, dove attese ai suoi studi e dove ebbe modo di entrare nel circolo dei Pontaniani, avvicinando personaggi di primo piano, come il Pardo, il Pucci, il Cotta, il Compatre, Elio Marchese, tutti apparteneti, più o meno, alla generazione del Pontano che morirono tra il 1509 e il 1517. E da giovane familiarizzò con la famiglia d’Avalos: nel 1512, come si è visto, aveva già composto dei carmina a essa dedicati, e naturalmente presto dové godere della loro protezione, che, non quella dei conti di Palena e di Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, si estese a tutta la sua vita. Nel 1525 i suoi meriti letterari, la sua profonda e vasta conoscenza della lingua e dalla letteratura latina e greca avevano già suscitato tanta considerazione negli ambienti culturali e presso il governo che gli valsero la nomina a lettore di umanità nello Studio napoletano. Egli era chiamato a succedere a un uomo quale il Summonte, che, insieme, col Sannazaro, era certamente il più alto esponente del circolo pontaniano. E questa cattedra tenne quasi ininterrottamente fino al 1541, con intervalli negli anni 1529 – 1531 e 1536 – 1538.

Secondo la testimonianza del Chioccarelli «il Filocalo da giovane aveva letto le parafrasi di alcune satire di Persio, la prima, la seconda, la terza, la quarta e l’ultima nell’accademia di questa città, sostenendo il ruolo del professore». Il brano di una lettera di Giovani Pietro Cimino da Cosenza, riportato dal Meola, informa che il Filocalo avrebbe commentato le Selve di Stazio come pubblico lettore: «Philocalus Troianus meus, publicus latinitatis professor, et diligentissimus, qui Neapoli Papini Silvas frequenti auditorio et magna cum laude exponit». Sugli altri argomenti trattati nelle sue lezioni sappiamo che si occupò di Plinio seniore, delle odi e delle satire di Orazio, e di autori greci oltre che di latini.

L’insegnamento del Filocalo fu molto apprezzato, come è evidente, oltre che dalle parole del Cimino, dall’elogio di Giano Anisio, che con una certa enfasi scrive: «Publice Neapoli legis tantaque cum laude et approbatione, ut non minus tuam quam Antonii Gniphonis scholam, si illic eras, Cicero frequentaret». L’eco della rima suscitata si riflette nell’epitaffio:

Quem nec Historiae remotiores,
Quem nec Fabula graeca nec latina,
Vocis notio nec fefellit ulla.
Quem tot docta Neapolis per annos
Audivit stupuitque de cathedra
Supra grammaticosque rhetoresque
Docte docta Poemata explicantem.

L’Anisio, oltre tutto, gli affidò la correzione dei suoi carmina: «Nostra haec inspicite, amputate, et illa — Quae censebitis otiosa, et esse — Non satis Metio probata».

Anche l’attività poetica del Filocalo, prevalentemente in latino e pertanto strettamente legata agli studi classici, secondo le testimonianze del Gravina e del Carbone, maturò nei suoi anni giovanili e si orientò su due versanti, quello epico, delle celebrazioni dei più insigni capitani del suo tempo, e quello epigrammatico-erotico, sulla traccia di Catullo de Marziale. E presto ebbe lusinghieri riconoscimenti. Il primo generosamente elogiativo, è quello del Carbone nell’Elegia al Nifo:

Nec te, Philocale, excipiam, cui munere sancto
Aonium lepido profluit ore melos.
Et sive Avalidos celebras, seu scribis amores,
Nos facit attonitos illud, et istud opus.

Il Minturno nella lettera a Ferrante Como, da Messina, parlando dei poeti in volgare di Napoli, così scrive: «I nomi soli mi spaventavano. Il Celano, il Toscano, il Tasso. Che diremo dell’Epicuro e del Tansillo? Voi non me ne fate parola, e son questi di nobile fama. Del Philocalo non mi meraviglio che tacciate, però che egli, nudrito in grembo de le più antiche e dotte Muse, e con l’ali di quelle a guisa di cigno levato a volo, non ha cura di queste volgari». Un alto elogio della poesia del poeta troiano, che sembra ricalcare quello del Carbone, troviamo nell’epitaffio:

Qui cultos epigrammatum libellos
Plenos edidit attici leporis.

Sembrerebbe dunque, che in vita non abbia avuto detrattori. Ma qualcuno, orggi, ha voluto accreditare il suo giudizio assolutamente negativo sulla produzione del Filocalo, leggendo con prevenuta acredine una lettera del Giovio, in cui lo storico, ripreso per un suo critico giudizio sul Sannazaro, si difende ricordando che il poeta dell’Arcadia non era stato affato tenero con molti poeti contemporanei, quali il Poliziano, il Bembo e lo stesso Pontano e che era stato ancora più duro contro i minori, quali l’Anisio, il Filocalo, il Querno e altri, che egli «metteva in un’altra bossola di poeti e non nella prima, nella quale meritatamente pareva che volesse star solo, come volle stare il Pontano nella sepoltura». Ora in questo passo il Giovio più che accanirsi contro questi poeti minori, sembra que accentui la sua condanna verso l’eccessiva severità critica del Sannazaro, che per altro era realmente noto come «et parcus et amarulentus in alieni operis censura laudator» e come chi «multo felle odii subamarus preaepilata iacula jambis intorqueret». Invero dagli Elogia si evince che il Giovio era più cauto giudice verso gli scrittori maggiori e più generoso verso i minori, come è evidente nella biografia che egli traccia del Querno, che certo fu il meno regolare di questi poeti minori, per la sua inventività estemporanea e per la buffonesca prestazione dei suoi servigi, riscattata infine dalla lacerante tragedia del suo suicidio.

Il motivo del severo giudizio del Sannazaro, che non si legge nelle sue opere, ma attraverso il polemico passo della lettera del Giovio, sarebbe stato, secondo il severo giudice di oggi, non tanto dettato dall’esigenza critica di censurare il valore letterario ed estetico delle opere del Filocalo, quanto dalla esigenza morale condannare la cortigianeria del Filocalo verso i grandi signori del tempo. Ma egli ignora che a costoro, ai d’Avalos, a Troiano Cavaniglia e a Ferrante Sanseverino non era mancata l’ammirazione e l’amicizia del poeta di Mergellina e che anch’egli non aveva lesinato loro i suoi versi. Ma l’appunto più grave che si può muovere al giudizio demolitorio del critico d’oggi è che esso è stato formulato non dopo una attenta lettura delle opere del poeta, ma dopo uno sguardo sommario rivolto ai loro titoli. Non è che si voglia erigere un monumento al Filocalo solo perché lo si è scelto come oggetto di questo studio, ma ritieniamo che non sia lectio mortificarlo dopo un esame superficiale e molto approssimativo. Sulla traccia del Croce, così attento, acuto e indulgente nello studio degli umanisti e dei poeti minori del Cinquecento e di altri secoli, ci è d’obbligo penetrare a fondo nel mondo di questi scrittori per coglierne ogni nota umana e il significato storico.

Sulla struttura morale del Filocalo sappiamo ch’egli era «Honesti studiosus» e doveva certo essere stimato per il suo equilibrio e la sua affabile cortesia se uno scrittore malevolo e aggrassivo come Nicolò Franco gli scriveva una lettera pungente: «Che vi pare, sig. Filocalo, del gentilissimo Anisio? Voi pur sempre mi avete detto che egli è una pecora e che non sa far male con le parole, se ben scrisse quelle satire quando era giovane e sapea poco. Ora vedete, per grazia, la brava pistola che m’ha scritta in risposta di quella ch’io scrissi piacevolmente per shcerzare con la sua riverenza».

Il Filocalo fu legato da reciproca amicizia con quasi tutti i litterati del tempo, come risulta dagli ultimi versi del Carmen nuptiale per le nozze del Maramaldo, dai rigerimenti che abbiamo già indicati e dai suoi epigrammi inserti nelle opere di amici: nel Carmen sacrum di Alfonso di Gennaro, nei Carmina del Gravina, nelle opere del Sosipatro e del Cimino, nel De origine hebraicarum, graecarum et latinarum vocum, deque numeris omnibus del di Falco, nel De bello neapolitano del Querno. Per debito di cortesia, come allora si usava, da amanuense, ricopiava versi che inviava ad mici, e così fece di un epigramma del Carbone in MethaphiscPetri Feltrii e di un sonetto di messer Cino, che comincia «S’io havesse pensato che sì caro», inviato, in gratiam, and Antonio Seripando.

Delle vicende private del Filocalo sappiamo ben poco. Il Giovio in una letera a Bernardino Rota, del 1 giungo 1548, dichiara che si rammarica «che il Filocalo si muoia di sete ne l’aurifero Perù», alludendo a un disagio che non sappiamo se finanziario o d’altra natura. Dall’epitaffio risulta che è vissuto sessantaquattro anni, ma ignoriamo la data della morte. Quella proposta dal Minieri Riccio, il 1561, non convince non è fondata su nessun documento, appare arbitraria. Secondo noi, dovrebbe esser riportata indietro epigramma insertio negli Epigrammata amatoria, epithalamia di Girolamo Madotto, Napoli, 1551. Nella sua biografia del FIlocalo il Meola afferma, sulla scorta di un Notamento misto, veduto dal Chioccarelli, che il poeta troiano sarebbe vissuto a lungo, come il Gravina, ospite dei conti di Palena e che sarebbe stato sepolto in una loro cappella. Il Filocalo fu certmente caro a Giovan Francesco di Capua, conte di Palena, strettamente legato ai pontaniani, ma non abbiamo altri elementi per confermare la notizia della lunga ospitalità offerta al Filocalo e di quell’ultimo affettuoso atto di accoglierne la slma in una sua cappella gentilizia. La notizia che il poeta sia stato sepolto in Santa Maria del Parto è assolutamente priva di fondamento.”

En: Della Roca, Alfonso, L’umanesimo napoletano del primo Cinquecento e il poeta Giovani Filocalo. Napoli: Liguori Editore, 1988, p. 47 – 52.