Biografía
Onorato Fascitelli (Isernia, 1502 – Roma 1564) nació en el seno de una familia noble. Inició los estudios humanísticos bajo las enseñanzas de Gaurico, aunque en 1518 entró en el monasterio benedictino de Montecassino. Aunque ejerció como religioso, nunca dejó de interesarse por la poesía griega y por la latina. En 1530, viajó a Venecia, donde conoció a Manuzio, con quien realizó una nueva edición de las Opere de Lattanzio y la Opera de Ovidio. Hacia 1533, se trasladó a la corte papal de Paolo III y formó parte de la Academia de los Colocci. Fascitelli cultivó la poesía latina dentro de la tradición clásica y humanista del momento, con una gran presencia de la mitología como recurso que le permitía reflejar su ideal religioso. De igual forma, no perdió detalle del ambiente literario napolitano y tuvo una gran amistad literaria con Capece (a quien revisó su De principiis rerum). En cuanto a su producción poética, hasta el siglo XVIII no se realizaron las ediciones más completas de obras como Alfonsus o Ad Scipionem Capycium.
Más información en: http://www.treccani.it/enciclopedia/onorato-fascitelli_(Dizionario-Biografico); https://www.wikidata.org/wiki/Q3882760.
“In un elenco di Baroni ribelli al dominio spagnolo (1528-1529), esclusi dai successivi indulti, è registrato Marco Fascitelli, padre di Onorato, «barone di Pesche in contado di Molise».[1] Aveva ottenuto da Ferrante I d’Aragona anche il titolo di «Cavaliere e Doganiero della Puglia pe ’l Regio patrimonio»,[2] lasciando ai fratelli di Onorato, Ferrante e Prospero, una difficile situazione patrimoniale cui nel 1535 tentavano di porre rimedio.[3]
Si comprende bene che all’indomani della vittoria di Tunisi e nell’imminenza dell’arrivo a Napoli di Carlo V gli eredi Fascitelli coltivassero la speranza di riavere i beni perduti e, in assenza di altri appoggi, puntassero le loro carte sulle relazioni di Onorato, che chiese e ottenne l’autorevole patronato di Bembo.
Dai pochi elementi disponibili si può argomentare che Fascitelli lasciò Venezia alla fine di agosto, come annunciato nella lettera a Seripando, per trovarsi a Napoli nello stesso periodo in cui vi soggiornò la corte imperiale (25 novembre 1536-marzo 1536). Il 3 novembre scrive da Roma a Paolo Manuzio, spiegando di essersi dovuto trattenere più del previsto per attendere i fogli dell’edizione del Sannazaro latino,[4] rimasti bloccati a Pesaro per mancanza di trasportatori:
“Hora che gli ho havuti, penso con la gratia di m. D. Iddio, domani pigliare la mia via verso Napoli, donde abbondandemente d’ogni cosa” [5]
Mancano fonti dirette proprio sui mei del soggiorno napoletano in cui è possibile immaginare che Fascitelli e Garcilaso si siano incontrati. Sull’esito del piato instaurato dai fratelli di Onorato nei tribunali di Napoli disponiamo di notizie indirette grazie alle lettere che Gregorio Cortese, abate di San Giorgio Maggiore a Venezia e futuro cardinale, scrive nel corso del 1536 a Gaspare Contarini, trasferitosi a Roma dopo la nomina a cardinale, le quali, oltre a rivelarsi fonte preziosa per la biografia di Fascitelli, testimoniano l’alta considerazione in cui Fascitelli era tenuto da tutti coloro con cui entrava in relazione. In breve: il 16 febbraio 1536 Cortese confessa a Contarini di tornare a malincuore a San Giorgio
“tanto più che mi manca il nostro Don Onorato, del qual sono già mesi, che non ho nova alcuna con mia grandissima molestia, dubitando, che non li sia occorso qualche sinistro, non essendo sua consuetudine di commettere negligenzia in scrivere. Quando sia ivi in Roma con Vostra Reverendiss. Signoria, paratus sum pati omnem iniuriam, parendomi, che io ancor insieme con lui mi vi ritrovi; quando fia altramente, mi è assai molesto e grave” [6]
Meno di un mese dopo (da Venezia, 8 marzo 1536) esprime la sua preoccupazione per la prolungata mancanza di notizie:
“sono molti mesi, che non ho nuova di Don Onorato, e così è, del che anche sto con l’animo sospeso, dubitando non li sii occorsa qualche infermità. Manco so, che successi abbiano avute le cose sue, se non che per alcune congetture penso, che poco vi abbia giovato per la qualità dei tempi” (p. 105)
È evidente dal cenno alle cose sue che anche Cortese fosse a conoscenza della questione della famiglia Fascitelli, cui si riferisce esplicitamente nella successiva lettera del 22 giugno:
“Il nostro Don Onorato mai non è venuto a Venezia, ma è andato verso la Cesarea Maestà. Troppo par a me, ut ita dicam, rabbioso in quel suo negozio, nel quale penso non deggia far più di quello ha fatto fin qui, ponendosi a pericolo di soccombere alle fatiche per la sua invalida complessione;[7] ma forza è lasciar secondarlo la sua volontà” (p. 108)
Se ne deduce che Fascitelli, non avendo conseguito risultati a Napoli, si fosse messo sulle poste di Carlo V, forse in attesa di momenti più propizi. Dal racconto di Gregorio Cortese, che segue la vicenda di Fascitelli con molto scetticismo, si apprende di un passaggio per Parma,[8] prima di spingersi fino a Savigliano, dove gli imperiali erano di stanza in vista del passaggio in Provenza (lettera a Contarini da Praglia del 22 luglio 1536):
“Don Onorato, come ho per sue lettere del primo di questo [luglio 1536], si ritrova in Saviliano in Piemonte, dove ancora era lo Imperatore, e pareva a lui fin d’allora aver ottenuto tutto quello, che poteva sperar di ottenere da chi non concede molto largamente” (p. 111)
Infine sembrerebbe che Fascitelli raggiungesse il suo scopo, stando a quanto Cortese scrive da Gubbio l’8 ottobre 1536:
“Vi si aggionge ancora, ch’il P. D. Onorato non è ancor venuto [a Gubbio], qual ritornato dallo Imperator, ha voluto andar fino a Venezia a ricognoscer li amici, e debbe capitar qua, acciò che tutti accompagnati veniamo a far riverenza a V. S. Reverendiss. È ritornato assai bene espedito delle cose sue, a tal che è accaduto a lui quello che a pochi altri, che da quelle parti se ne viene contento” (p. 115)
Si fosse trattato solo di promesse o di atti concreti non si saprebbe dire, certo Cortese non manca di rimarcare che la soluzione positiva fosse da considerare un’eccezione piuttosto che la regola. Più importante è sottolineare che Fascitelli fu presso il campo degli imperiali nello stesso mese in cui vi si trovava anche Garcilaso, che, come è noto, il 15 luglio 1536 scrive dopo lungo silenzio a Girolamo Seripando proprio da Savigliano, «quejándose de ciertos “enemigos” difícilmente identificables»,[9] quindi aggiungendo un passaggio alquanto sibillino:
“Yo estoy bueno de salud, y estaríalo de todas las otras cosas si tuviese enemigos que valiesen más o que valiesen menos, mas el no valer mucho les hace que me dañen no como caballeros, y el no ser en todo poco hace que le suceda parte de lo que procuran; mas con todo esto lloran más veces al día que ríen” [10]
Senza formulare gratuite illazioni, un dato sembra certo. Garcilaso scrive a Seripando negli stessi giorni in cui a Savigliano si trova anche Fascitelli, che appena un anno prima era stato incaricato di presentare i versi di lui a Bembo: è possibile credere che non si fossero incontrati? Il silenzio su Fascitelli in una lettera diretta a Seripando è quantomeno sospetto. D’altra parte, che senso avrebbe l’ambigua evocazione di innominati enemigos, se non immaginando che potevano essere noti al destinatario? E il fatto che costoro siano capaci di fare danni no como caballeros, che di solito attaccano frontalmente, può essere interpretato come indizio che Garcilaso si fosse sentito colpito a tradimento da qualche maldicenza? Inutile andare oltre nelle congetture, attenendosi all’unico dato certo: nel luglio del 1536 Fascitelli e Garcilaso erano entrambi a Savigliano nel campo degli imperiali ed è improbabile che non si siano incrociati, tanto più che dalla lettera di Gregorio Cortese sembrerebbe inferirsi che, essendo stato assai bene espedito delle cose sue, avesse ricevuto qualche formale promessa, se non da Carlo V in persona, almeno da persona influente del suo entourage, dopo che si era rivelata infruttuosa la mediazione chiesta a Garcilaso per interposto Bembo. Nei silenzi della storia non si può scrivere: ma talvolta anche i silenzi parlano e il silenzio di Fascitelli che, dopo un intenso corteggiamento, non farà mai il nome di Garcilaso nei suoi scritti può essere indizio che la più che possibile amicizia tra i due si concludesse nelle giornate di Savigliano.
[…]
Si ritorna così al punto donde siamo partiti: la lettera di Fascitelli a Girolamo Seripando dell’8 agosto 1535, che, oltre a testimoniare l’interesse dei due per la poesia di Garcilaso, congela un interessante specimen di dibattito accademico, sia pure sviluppato per via epistolare. Il testo è il seguente: [11]
“Molto R(everendo) P(adre) Maestro mio. Monss(ignor)r n(ostro) Bembo m’ha risposto assai più tosto, ch’io non mi credea: E veda la P(aternità) V(ostra) R(everenda) che humanità è la sua; che non potendomi egli respondermi per lo dolore,[12] di mano propria, secondo ’l suo costume, non ha voluto tenermi a bada; ma per mano del Cancelliero s’è sforzato di sodisfare. E perché m’ha tolta quella poca fatica, ch’io pensava di fare per v(ost)ra sodisfatione, sopra le cose del C(avalie)r Grac(ilasso),[13] e perché la sua risposta a me po essere risposta mia a V(ostra) R(everenda) P(aternità) gliele mando l’una e l’altra: pregandola, che mi perdone, s’io non replico altramente il già toccato da me, e da S(ua) S(ignoria)[14] assai copiosamente trattato. Questo solo tornerò a dire: che prego la P(aternità) V(ostra) R(everenda) che sia contenta di mandare tosto il nostro Alfonso: promettendole che, non potendo hora, come sarò in Napoli muteremo tutto quel principio, come a Voi piacerà il meglio. Con ciò sia cosa che né anco a me è piaciuto:[15] non solo per essere novo appresso latini, o per parere che ne caccie le Muse: ma per essere tradotto non così alla virgiliana, come io harei voluto. Che la novità potea meritare favore. Il non invocare le Muse, stava bene in una bagattelletta come questa, in ciò seguendo io le orme di Virg(ilio), Tibullo[16] ed altri, ma quel senso[?][17] lo mi facea sospettiss(imo). Né guarderò né a Mons(igno)r Bembo, né a quanti letterati sono qui / miei amici, alli quali tutti è aggratato grandemente: ma letto c’haremo di compagnia l’Hierone di Teocrito, dal quale è pigliato,[18] senza altro sono per preporre il giuditio di V(ostra) R(everenda) P(aternità) a quello di tutti. Muterà anchora, piacendole, come le ho scritto:
Alfonsi iam signa canit victricia fratris ovvero
Iam canit Alfonsi fratris victricia signa,
Aeolio thuscas percurrens pectine chordas.
E di sopra:
Adderet Alfonso sese iuvenemque secutus.
E di sotto:
Sulfureque strepituque et terrificis fulg(etris).
Io sono di V(ostra) R(everenda) P(aternità). Io l’amo. Stia sana. A Dio.
Da S. Giorg(io) Magg(iore) [19] a’ viii d’agosto del xxxv. Ad hore xxii.
Di V(ostra) R(everenda) P(aternità)
affettionatiss(imo)
Hon(onoto) Fascitello|
[a tergo] Nui parteremo da qua, [20] piacendo a n(ost)ro S(igno)re Iddio, al fine di questo. Alla buona gratia dell’ill(ustre) S(igno)r Conte [21] mi terrete raccomandato”
Nella lettera è fin troppo evidente il ruolo di “guida” riconosciuto da Fascitelli a Seripando, tanto da impegnarsi a modificare il testo secondo le sue indicazioni. Il poemetto in 212 esametri Alfonsus, dedicato a Vittoria Colonna, richiede un’indagine particolareggiata che si dovrà svolgere in altra sede. Qui ci si potrà limitare a osservare che, dal punto di vista di Seripando, la parte più debole era costituita proprio dall’esordio:
Numquam non Musis, numquam non vatibus aeque
gesta deum curae, curae sunt gesta virorum.
At vos, Pegasides, vos aequius inclyta semper
facta patris decet et divum cecinisse trophaea
[…].
Nos contra melius, nobiscum carpere suetos,
quidquid id est tandem caeli et spirabilis aurae,
nostrates canimus vestrisque aequare paramus. [22]
Fascitelli aveva deciso, sulla scorta dell’idillio XVI di Teocrito (Le Càriti o Gerone), di cacciare le Muse, cioè non collocare in esordio la tradizionale invocazione, pensando che il modello greco, tradotto quasi ad verbum, fosse garanzia inattaccabile, tranne poi rendersi conto che «per essere novo appresso latini» fosse necessario un supplemento di riflessione e di confronto con il «Padre Maestro» una volta tornato a Napoli. Questo lacerto di discussione accademica ci restituisce la misura dell’autorevolezza che Girolamo Seripando, dopo la morte di Sannazaro e Summonte, aveva acquisito presso la più giovane generazione pontaniana, tanto che anche Garcilaso aveva trovato naturale rivolgersi a lui, non solo affidandogli i versi latini da mandare a Bembo, ma anche esporre dubbi e sollecitare risposte su questioni letterarie. Seripando conservò viva memoria del poeta spagnolo troppo presto strappato alle Muse. A distanza di molti anni, e in un’occasione solenne come la stampa della traduzione in volgare del sermone pronunciato a Napoli nelle esequie di Carlo V, volle recuperarne il ricordo nel contesto della dedica a Placido Di Sangro,[23] riandando al tempo delle conversazioni accademiche:
“Di questi due modi d’interpretare non voglio dir più, ricordandomi d’haverne scritto pure assai anni sono, quando ero posto in questi studii, a quell’honoratissimo & virtuosissimo Cavaliero Garcilasso della Vega amico nostro commone, richiesto da lui (che come sapete era studiosissimo d’Horatio, & l’imitava ne i suoi scritti felicemente) com’io intendessi quel passo:
Nec verbum verbo curabis reddere versus fidus interpres.
Ove m’ingegnai esporre Horatio, con questa distintione di Marco Tullio, contra l’openione de i molti” [24]
Si torna così al cruciale nodo del 1535, quando Fascitelli ebbe la ventura di incrociare la traiettoria di Garcilaso, sebbene poi il seguito della storia ci lasci il dubbio che l’amicizia possibile tra i due sia rimasta senza apprezzabili sviluppi per motivi destinati purtroppo a rimanere oscuri.”
[1] Cfr. Tommaso Pedìo, Napoli e Spagna nella prima metà del Cinquecento, Bari, Francesco Cacucci, 1971, p. 284 e n.
[2] Gio. Vincenzo Ciarlanti, Memorie historiche del Sannio […], in Isernia, per Camillo Cavallo, 1644, p. 494, che tuttavia sostiene che fu «sepelito circa l’anno 1517» nella chiesa francescana di S. Maria delle Grazie a Isernia, alla cui edificatione aveva contribuito. Può darsi che l’anno della morte indicato da Ciarlanti sia errato e che Marco Fascitelli sia morto in tempi immediatamente successivi alla ribellione del 1528-1529.
[3] Luigi Primiani, Note storico-critiche su Onorato Fascitelli, cit., p. 10 in nota, aveva probabilmente localizzato gli atti, senza avvedersi che si trattava di una petizione inoltrata dai fratelli Fascitelli, nell’Archivio di Stato di Napoli, indicandone la collocazione come «Esecutoriale numero antico 36; num. mod. 34. Anno 1534-1536». Il documento non è attualmente consultabile, essendo rimasto coinvolto nell’incendio del 1943. Tuttavia l’indicazione della data (1534-1536) pare confermare che il desiderio di ottenere la reintegra dei titoli feudali a beneficio dei fratelli sia stata la molla principale delle azioni di Fascitelli nel biennio 1535-1536. Primiani riferisce solo della perdita dell’ufficio di Credenziere della Dogana di Foggia «ob notoriam rebellionem Marci Fascitelli, qui illud officium tenebat et possidebat, et ob felloniae crimen». Pèrcopo in Rassegna critica della letteratura italiana, III, 1898, pp. 78-81 (a p. 80), a sua volta aggiungeva altra notizia dal vol. XIII dei Quinternioni [dei feudi] (f. 44v), attualmente perduto, sostenendo che Marco Fascitelli aveva perduto fin dal 1534 «il castello di Pesco Costanzo, sito ne la provincia di Contado di Molise». Anche in questo caso la notizia non è precisa, sia perché Marco Fascitelli nel 1534 era già morto (nella lettera di Bembo a Garcilaso, infatti, è detto chiaramente che gli attori della causa per la reintegra erano i fratelli e non il padre di Fascitelli), sia perché il feudo perduto era Pesche nel Molise e non Pesco Costanzo, che si trova in Abruzzo e dal 1507 risulta infeudato a Fabrizio Colonna.
[4] Iacobi Sannazarii Opera omnia latine scripta nuper edita, Aldus, M.D.XXXV: dal colophon si apprende che la stampa era stata ultimata nel settembre del 1535, il che conferma la partenza di Fascitelli da Venezia a fine agosto.
[5] Il testo della lettera in Antonio Ceruti, Lettere inedite di dotti italiani del sec. XVI, tratte dagli autografi della Biblioteca Ambrosiana, Milano, Tip. e Libreria Arcivescovile, 1867, pp. 85-87; la lettera era stata in precedenza stampata in Lettere di Paolo Manuzio copiate sugli autografi esistenti nella biblioteca Ambrosiana, a cura di Antoine-Augustin Renouard, Parigi, Giulio Renouard, 1834, pp. 348-351.
[6] Le citazioni delle lettere sono tratte da Gregorii Cortesii Omnia, quae huc usque colligi potuerunt sive ab eo scripta, sive ad illum spectantia […], Pars prima, Padova, Comino, 1774, p. 100 (le successive citazioni recheranno solo l’indicazione del numero di pagina). Su Gregorio Cortese, cfr. Gigliola Fragnito, «Cortese, Gregorio», in Dizionario Biografico degli italiani, vol. 29, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1983. Fu un vero e proprio maestro per la generazione dei benedettini nata nei primi anni del XVI secolo: suoi allievi nel monastero di San Benedetto Polirone vicino Mantova furono tra gli altri Dionisio Faucher, Luciano degli Ottoni, Giambattista e Teofilo Folengo, Benedetto Fontanini (autore del Beneficio di Cristo), nomi in varia misura coinvolti nel dibattito teologico poi stroncato dal Santo Ufficio. Dal 1532 al 1537 resse il convento di San Giorgio Maggiore a Venezia, dove ritrovò Bendetto Fontanini e strinse amicizia con Fascitelli, e «al di fuori del monastero venne a contatto con un gruppo di chierici e laici dimoranti tra Venezia, Padova, Verona e Mantova che, sia pure per vie diverse, quando non contrastanti, auspicavano un rinnovamento della vita religiosa sia a livello personale sia a livello pastorale. Presto si raccoglieranno intorno a lui patrizi illustri, come Gasparo e Tommaso Contarini, Matteo Dandolo e Alvise Priuli, prelati impegnati nella riforma delle loro diocesi come il Giberti e il cardinal Gonzaga, ricchi mercanti come Donato Rullo, letterati come il Bembo, il Flaminio e il Lampridio, esuli come l’inglese Reginald Pole ed il fiorentino Antonio Brucioli, il quale nei giardini di S. Giorgio ambienterà uno dei suoi Dialoghi della morale philosophia». Nel 1542 fu creato cardinale da Paolo III.
[7] Secondo i biografi, dall’età di tredici anni, in conseguenza della caduta da un albero, «la sua schiena rimase irrimediabilmente curva»: Floriana Calitti, «Fascitelli, Onorato», in Dizionario Biografico degli italiani, cit., 45, 1995.
[8] «Don Onorato nostro è andato verso lo Imperatore, né da lui ho lettere poi che passò a Parma. Credo vi averà fatica, e travagli assai, e forse alfine perderà il tempo» (lettera del 6 luglio 1536, p. 111). Nel frattempo (12 maggio 1536) Fascitelli, in procinto di recarsi a Milano, aveva chiesto a Pietro Aretino una lettera che lo raccomandasse a Massimiliano Stampa: Lettere scritte a Pietro Aretino, I, a cura di Paolo Procaccioli, Roma, Salerno Editrice, 2003, p. 291.
[9] Bienvenido Morros in Garcilaso de la Vega, Obra poética y textos en prosa, cit., p. xxxix.
[10] Ivi, p. 273.
[11] Ringrazio Eugenia Fosalba che mi ha messo a disposizione la riproduzione fotografica dell’originale conservato nel ms. XIII AA 64 (ff. 13-14) della Biblioteca Nazionale di Napoli. Nella trascrizione sciolgo le abbreviazioni in parentesi tonde. La lettera è stata pubblicata da Meola e Cassese (vid. supra).
[12] Si riferisce alla morte della Morosina (6 agosto 1535).
[13] Meola mette i puntini sospensivi, Cassese trascrive Davolos spiegando in nota «Abbiamo letto Davolos una parola qui siglata». Ma èvidente che Fascitelli scriva in forma abbreviata Grac con svolazzo finale.
[14] Si riferisce al giudizio espresso da Bembo.
[15] Meola omette la frase da Con a piaciuto.
[16] Meola omette Tibullo.
[17] Cassese: testo e più avanti sospetti.
[18] L’idillio XVI di Teocrito (Le Càriti o Gerone) è tradotto infatti nell’esordio dell’Alfonsus di Fascitelli: «Alle figlie di Zeus sta sempre a cuore, / sempre ai cantori questo, celebrare / gli immortali col canto, celebrare / le imprese coraggiose degli eroi. / Le Muse son divine e il loro canto / è fatto per gli dèi, ma noi mortali / i mortali cantiamo da mortali».
[19] Non saprei dire donde Cassese ricava la notizia che il «convento benedettino di S. Giorgio Maggiore, con relativa chiesa annessa» fosse situato «nel cuore di Napoli».
[20] Cassese: parleremo da quando.
[21] Cassese identifica il Conte con Alfonso d’Avalos, che tuttavia era marchese. Dato il frangente in cui la lettera fu scritta e considerato che l’edizione del Sannazaro latino (uscita poi a settembre) doveva già essere in lavorazione, mi sembra più plausibile cogliere un riferimento al dedicatario di questa: Antonio Diaz Garlon, Conte di Alife.
[22] Fascitelli, Opera, pp. 1-2.
[23] Ricordato, insieme a Mario Galeota, da Garcilaso nell’ode ad Antonio Telesio (vv. 59-60: «rerumque multarum refertus / atque memor Placitus meus») tra i partecipanti alla conversazione accademica con Girolamo Seripando, da identificare senza ambagi con il «parentis quem veneror loco» (v. 46), alla cui visione teologica, piuttosto che a quella di Scipione Capece (come propende a credere Bienvenido Morros nel suo commento, p. 250), è riconducibile l’idea della partecipazione della divinità alle vicende degli uomini (vv. 51-52: «curare seu mortalium res / caelicolas grave sive monstrat»). Vorrei aggiungere che anche Fascitelli, nella ricordata elegia a Scipione Capece, nel punto cruciale della apparente ritrattazione dell’elogio di Epicuro appena pronunciato, non trova espressione più efficace per suggellare il suo riallineamento teologico che professare la medesima verità, in una forma non troppo diversa da Garcilaso: «Sunt Superi, curantque homines hominumque labores, / tangunturque ira respiciuntque pios» (Fascitelli, Opera, p. 13). Da un confronto con la prima redazione dell’elegia edita in Carmina illustrium poetarum italorum, a cura di Giovan Matteo Toscano, Lutetiae, Gorbinus, 1576, I, cc. 262v-264, e il testo edito da Meola si osserva un complesso processo di rielaborazione, con notevoli varianti e aggiunte di versi e tra questi proprio il distico appena citato, in cui Fascitelli sembra compendiare in estrema sintesi il De ira Dei di Lattanzio, autore a lui ben noto.
[24] Oratione di Hieronimo Seripando arciuescouo di Salerno recitata in Napoli a di XXIIII di febraro MDLIX, In Napoli, appresso Mattio Cancer, 1559, cc. Aiiv-Aiiir.
Dos fragmentos del capítulo de Tobia Toscano «Onorato Fascitelli «alma de verdadero poeta»: dall’amicizia possibile con Garcilaso all’invettiva contro l’hispana avaritia», en Eugenia Fosalba y Gáldrick de la Torre eds., Contexto latino y vulgar de Garcilaso en Nápoles: redes de relaciones de humanistas y poetas (manuscritos, cartas, academias), Peter Lang Verlag, 2018.
“O. Fascitelli. — Pieni di grazia e di classica armonia sono invece i carmi di Onorato Fascitelli, pubblicati una prima volta in edizione cominiana nel 1751, insieme con le poesia del Sannazaro e dell’Altilio; poi ristampati nel 1776 a Napoli a cura di G. V. Meola, che vi premise anche una breve biografia. Nato a Isernia nel 1502, quindici anni dopo, il Fascitelli fu condotto a Napoli e affidato alle cure di P. Gaurico, per lo studio delle lettere. La sua vita è ben nota, avendo avuto l’onore di due memorie (cosa strana, per un umanista minore!), le quali, però, sarebbero state più utili agli studiosi, se gli autori, prima di ricalcare la biografia già scritta dal Meola, avessero dato uno sguardo, tra le carte di quest’ultimo nella Nazionale di Napoli, a un esemplare di quella monografia tutta postillata nei margini dallo stesso autore e corredata di aggiunte biografiche notevolissime. Ricordiamo soltano che fu benedettino, aiutò il Capece nella stesura e nella correzione del De principiis rerum, e lui il Gaurico affidò l’inno greco per Fabrizio Brancia, perchè lo offrisse al Seripando. Deve anche esser ricordato che la celebre edizione aldina del Petrarca (1546), tanto lodata dal Dolce, fu corretta su un codice posseduto dal Fascitelli. Fu anche vescovo dell’Isola, e morì a Roma nel 1564. A lui si deve inoltre, in una lettera a Paolo Manuzio, la prima menzione dei perduti «gliommeri» del Sannazaro.
Anche la poesia del Fascitelli arieggia quella pontaniana, segnatamente nella lirica d’amore. Anch’egli si culla nei dondolii di parole, nei vezzeggiativi e in tutte quelle piccinerie verbali, tanto spontanee e simpatiche in Catullo e nel Pontano stesso, ma altrettanto inconsenti e noiose nei pontaniani:
In Sabellam, romanam puellam lepidiss
O os purpureum, genaeque laeves
Sabellae, o tenerae manus eburnae,
Dentes candiduli, venusti ocelli:
Quibus candidus, venustiusque
Nec candor potis esse, nec venustas:
Qui vestra glacie Notum rigere,
Aut vestra Boream tepere flamma,
Stulti versiculis canunt ineptis,
Ah quanto satiusque veriusque
Me aegrum, flante Aquilone, flante et Austro,
Dicerent tremere usque et aestuare!
E ancora Il eamdem:
Sabellae ocelli, non ocelli, sed vagi
soles duo minutuli:
labella, non labella, sed corallia
saxis tenella in candidis:
si vos rigentum flabra ventorum horrida
dissuaviari insaniunt,
nec est manu, vel pallio procacium
arcere pervicaciam;
nos perditos, qui carne molli, et ossibus
non saxeis planne sumus,
quonam putatis esse posse corculo?
qua mente? nec plura attinet.”
En: Altamura, Antonio. L’umanesimo nel mezzogiorno d’Italia. Firenze: Bibliopolis, Libreria Antiquaria Editrice, 1941, pp. 139 – 140.