Como cuenta Antonio Sebastiano Minturno en su De Poeta, Mergellina se encuentra cerca de Nápoles, al pie de Posillipo, donde el mar lava un promontorio no muy lejos de la playa y de la carretera que conduce a Pozzuoli. Aquí, Sannazaro había construido una hermosa villa para él y un santuario para María, la madre de Dios.
“Da Scorziano, dunque, viene a sapere che erano Pietro Summonte e lui stesso che selezionavano qualche giovane nobile con cui riunirsi quando finiva il loro lavoro giornaliero. Essi lo accompagnavano se lui accettava l’invito. Da questa scuola fiorita intorno a Summonte a Napoli, aggiunge Minturno, sortirono «innumeros doctrinae principes», come fossero usciti dal cavallo di Troia. Sono, in effetti, vari giovani appartenenti alla nobiltà napoletana ad essere menzionati a mo’ di testimoni di questi incontri fra sapienti veterani, come Pietro Gravina (1452-1529 ca.), Girolamo Carbone (1460-70?-1528), Pietro Summonte (1453-1526), Pomponio Gaurico (1482-1530 ca.), lo stesso Sannazaro (1456-1530), invitato d’eccellenza del cenacolo, e Lucio Vopisco, il meno conosciuto dei – per la maggior parte – sapienti anziani, di cui Minturno dice che si trova ancora tra coloro che vivono e il quale, nel 1533, da Giovanni Filocalo nel Carmen nuptiale per le nozze di Fabrizio Maramaldo veniva citato tra altri esponenti illustri dell’umanesimo meridionale1. Nel 1535 pubblicava alcuni versi nel De sanctitate et profanitate di Agostino Nifo, e nel 1546 sarebbe stato salutato da Berardino Rota nell’orazione agli accademici Sereni come «utriusque sermonis peritum senem» che confermano, in effetti, che in quegli anni viveva ancora2.
L’altro gruppo di partecipanti agli incontri di Villa Mergellina è costituito dai giovani gentiluomini che ebbero la fortuna di assistere a quelle riunioni sulla poetica latina, e persino di prendere parola, compagni di generazione dello stesso Minturno, preziosi testimoni di cui si serve per riempire il vuoto della sua esperienza: sono, anzitutto, il già menzionato Lucio Camillo Scorziano, Andrea Cossa (con entrambi Minturno ha uno scambio epistolare da Ischia), oltre a Francesco Teto (giurista e letterato che dedica i suoi sforzi all’interpretazione della legge antica, come si specifica in un passaggio del De Poeta3.). Minturno considera di non aver tradito la memoria degli umanisti lì riuniti, dal momento che essa è immortale ed è viva in altri testi; dovrebbe essergli concesso di trascrivere queste idee, dal momento che ci sono dei testimoni ancora vivi di quelle conversazioni, come Vopisco (tra i sapienti anziani), o come Scorziano (del gruppo dei giovani gentiluomini), che lo ha messo al corrente dei temi che si dibattevano. Minturno pertanto riconosce che sta realizzando una ricostruzione narrativa di quelle riunioni, ma realizzata in una forma così verosimile e rispettosa che chi ne abbia ricordo non avrà nulla da recriminargli.
Anzi, al contrario, sembra che coloro che sono ancora vivi l’abbiano aiutato a recuperare quel passato glorioso che rischiava di perdersi nell’oblio. Un passato non troppo lontano, che appare però dolorosamente perduto. E con un solo, tragico, colpo: quello della peste che nel novembre 1526, come annota nel suo diario Seripando, iniziò a devastare Napoli4. Minturno colloca la scena nell’anno precedente alla disastrosa piaga che affliggendo a lungo l’Italia, invase Napoli: fu allora che vari giovani seguirono Scorziano a Mergellina. La primavera era nel suo pieno fiorire. Tutto sulla terra, nel mare e in cielo sorrideva. Actius Syncerus era arrivato da pochi giorni5. Molto più avanti, nell’ultimo libro, si ricorderà di nuovo di questi conversari, quando Minturno si appresta a trascrivere quello che ipoteticamente fu discusso in una delle ultime sessioni (la terza nella narrazione ricreata); nel lasso di due anni da allora (cioè, entro la fine del 1528), la morte si portò via la maggior parte di questi uomini meritevoli dell’immortalità: di quanti furono, solo uno sopravvive (come già ci era stato anticipato all’inizio dell’opera): Vopisco. Summonte morì di idropisia appena sei mesi dopo che tali questioni furono dibattute. Quando la peste contagiò Napoli, Gravina seguì Francesco Di Capua, IV conte di Palena6, in cerca di un clima salubre, sulle montagne campane, ma quelle zone gradevoli non furono benefiche per la salute: Minturno ricorda con dolore che Gravina aveva già raggiunto la settantina, momento in cui la vita può durare ancora degli anni. Quando l’invasione francese di Lautrec era ormai quasi finita e fu tolto l’assedio, morì Girolamo Carbone; poco dopo (nel 1530) morì Sannazaro. Pomponio Gaurico, nonostante avesse sofferto la prigionia dei francesi, fu esiliato e, allontanato dal focolare domestico, morì di tristezza7.
Pare che quest’ultimo libro sia stato scritto posteriormente rispetto agli altri, per lo iato che qui introduce il tono nostalgico e l’imprecazione alle disgrazie dell’Italia; come confessa l’autore, quest’ultima fase della scrittura, la più lunga, gli costò di più di tutte le altre, per i dolorosi ricordi che essa irrimediabilmente comportava. Non stupisce che possa aver tardato di più a scrivere quest’ultimo libro, dato che, come ha confessato all’inizio del De Poeta, impiegò nove o dieci anni a finirlo. L’allusione alla morte di Sannazaro come qualcosa di già avvenuto, collocherebbe la stesura di quest’ultimo libro in un periodo compreso tra il 1530 e il 1535, data della morte del viceré Ettore Pignatelli”
Véase el retrato de aquella doble generación de estudiosos, jóvenes y ancianos, que se reunían en la villa de Sannazaro, en el estudio de Eugenia Fosalba “Tracce di una precoce composizione (ca. 1525-1533) del De Poeta di Minturno. A proposito della sua possibile influenza su Garcilaso de la Vega”, Critica Letteraria, 173 (2016), pp. 627-650, esp. 636-638
1. «Et, Borgi, propera, melosque rarum / ad notos, precor, afferas Penates, / Quo soles canere ore Livianum. / Marsorumque, Epicure, honor tuorum, / Vopisce, et Parisete, Querne, Falco, / Rutilique, et uterque Martirane, / Omnes gloria carminis latini / et qui versiculos foro relicto / Mavis, Scipio, dulcibusque Musis / Nuper ocia grata consecrasti.»: A. della Rocca, L’umanesimo napoletano del primo Cinquecento e il poeta Giovanni Filocalo, Napoli, Liguori Editore, 1988, pp. 115-116.
2. A proposito di questo umanista, scrive Vito Capialbi: «Giovan Luigi Vopisco, Joannes Ludivicus Vopiscus, Napolitano amico del Pontano, del Tibaldeo, del Sannazaro, di Paolo Bombasio, del Summonte, del Coricio, del Nifo, del Colocci, e di quanti altri fiorirono in Roma, ed in Napoli nell’esordire del secolo XVI, fu uomo di grande opinione letteraria. […] E ne l’altro trattato dello stesso A. Nifo, De Sanctitate et profanitate, Venet. 1535 per Petrum de Nicolinis de Sabio, trovasi: Io. Aloysii Vopisci: «I templum ad sanctum huc: / si urget via longa viator: / Saltem attrectato limine tutus abi.”[…] Cosmo Anisio ne’ Variorum poematum libri 1533, fol. 24 dirigegli i seguenti versi: Ad Elysium Vopiscum, “Quod maius vitium in meis putares / Fabellis, mihi, dic Vopisce, amabo? / Uti (sit modo propria, et latina) / Simplici et facile locutione, / An verbis gravioribus? Gradivi / Canantur quibus horrida arma Martis, / Aut convivia despuenda fratruum. / Nec noster usque adeo Thalia muta est / Aut ludens Erato, aut soror secunda.» Ed il Carbone nell’elegia sopra citata anche canta: «Vopiscus graia insignis, latiaque Minerva / Assidet, et pleno pectore fundit opes» (V. Capialbi, Memorie di Rutilio Zeno e Aurelio Bienato, Napoli, Dalla Stamperia di Porcelli, 1848, p. 35). Cfr. T. R. Toscano, Un’orazione latina inedita di Berardino Rota «principe» dell’Accademia dei Sereni di Napoli, in Id., Letterati corti accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2000, pp. 299-325 (p. 317). Lucio Vopisco fu tra i sottoscrittori dell’atto fondativo dell’accademia dei Sereni.
3. «Quoniam id quidem deberi a me tantis hominum ingeniis semper existimaui, ut quos dum uiuerent coluissem, eorum memoria per me non staret, quin immortalis redderetur. Nec mihi uerendum est, credi posse me illorum doctrina scripsisse aliquid, in quo mihi id fingere liceret; quod nullius unquam refelli recordatione potuisset. Quandoquidem recens, ac uiua eorum memoria tenetur, multique supersunt, qui eos ipsos, de quibus loquor, saepe audierunt. Nec non superstes etiam nunc uiget, ac uigebit, ut opto, diutius in poetica cum illa cuniungens philosophiam Lucius Vopiscus, homo sane omni eruditione ornatus, cui sermonis magnam partem utique tribuerunt. Testes deinde mihi sunt cum certe plures, qui dum hic sermo haberetur, interfuerunt, tum Neapolitanae iuuentutis tria clarissima ornamenta, Scortianus, Cossus et Thetius a quibus haec eadem cognoui. Quam ob rem, Princeps amplissime, cum tibi explicauerim, quae pridie summi illi homines, contentione quadam disserendi, ac potius more Academico, quam ut quae ipsi animo sensissent, declararent, de Poetae facultate dixerunt. Nunc plane exponam, quae postridiae praecepta diuinitus tradiderunt», De Poeta, cit., p. 86
4. Cfr. Vita del cardinale Girolamo Seripando uno dei legati del Concilio di Trento, scritta a modo di giornale da lui medesimo, in G. Calenzio, Documenti inediti e nuovi lavori sul Concilio di Trento, Roma, Sinimberghi, 1874, p. 157: «Novemb. 1526: Neap. Pestis invasit» (il diario di Seripando è conservato nel ms. IX.C.42 della Biblioteca Nazionale di Napoli).
5. «Itaque anno antequam pestilentia illa funesta et exitiosa, quae diu per omnem Italiam summa cum pernicie debaccata est, Neapolim inuasisset, cum iam uer plenum esset, et iam omnia terra, marique ac caelo arriderent, omniaque ad uoluptatem inuitarent, euenisse, ut illum secuti petierint Mergillinam», De Poeta, cit., pp. 6-7. Era opinione consolidata, continua a raccontare Minturno, che Sannazaro occupasse il luogo più alto tra i poeti della sua età. Summonte e lui erano intimi amici. La loro amicizia, iniziata nella frequentazione dell’accademia pontaniana, era fiorita nella condivisione degli impegni quotidiani e degli studi comuni. Ogni giorno si rafforzava di più, e così rimase per sempre solida. Anche Girolamo Carbone e Pietro Gravina si erano recati a Mergellina e, insieme a loro, Pomponio Gaurico, che all’epoca istruiva il giovane principe di Salerno, e Lucio Vopisco. Mergellina si trova vicina a Napoli (racconta ancora Minturno), ai piedi di Posillipo, dove il mare lava un promontorio non lontano dalla spiaggia e dalla strada che porta a Pozzuoli. Qui il Sannazaro aveva costruito una bella villa per sé ed un santuario per Maria, madre di Dio. Non appena tutti sedettero nel sottoportico da cui si vede con incredibile godimento dell’anima tutto il golfo in lungo e in largo, si scambiarono gli abituali saluti. Scese il silenzio. Allora Summonte parlò, dando così inizio alla sessione (cfr. De Poeta, cit., pp. 6-7).
6. «Grauina autem, cum pestilens annus Neapolim inuasisset, ut aeris quareret salubritatem, Palenium Regulum secutus, qui, qua erat in homines eruditos liberalitate, domi eum fouebat, ad saltus Campanus diuertit, in quibus Palenius amoena quaedam oppida tenebat» (ivi, p. 434).
7. «At res docuit, nec loco fati necessitatem mutari, nec fortunae cursum impediri, quin, ubi uelit, fugientem assequatur. Nihil enim Grauinae profuit illius amoenitas regionis, nihil diuersorium salubre, nihil commoratio periucunda, quo minus in uim eam fatalem inciderit. Erat ille comis, et hilaris, uegetusque senex, non tristis, non asper, non imbecillis, et uero tam corpore, quam animo ita belle affectus, ut nihil haberet, quod senectutem accusaret, omnes autem uiuendi numeros expleturus, et quousque uita hominis progredi potest, eo peruenturus esse uideretur, qui iam esset annorum septuaginta spatium praetergressus. Cum autem pestilentia saeuiret, ortum est saeuissimum illud bellum, quo excisionem, inflammationem, euersionem, depopulationem, uastitatem omnibus fere oppidis Regnis huius, atque agris illatam; maxima multitudine a Gallis Neapolim obsessam, ac uehementer oppugnatam, Regulos tot proscriptos, tot exilio mulctatos, tot capite damnatos conspeximus. Hoc bello profligato, ac soluta obsidione, Carbo, pauloque post Syncerus uita excesserunt. Initio huius belli Gauricus ab hoste captus, insimulatus autem, quod defecisset ab imperio nomineque Hispano, et ad Gallos transfugisset, atque in exilium profectus, cum patria, domoque eiectum se esse iniquo animo ferret, prae nimio moerore animam dicitur amisisse» (ivi, pp. 434-435).