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Galeota, Mario

Biografía

Nació en Nápoles, a finales del siglo XV o a principios del siglo XVI. De joven, Galeota se orientó hacia las artes militares, adquiriendo nociones científicas y teóricas en matemáticas aplicadas e ingeniería militar. Poco tiempo después se volcó en los estudios humanísticos, llegando a entablar una gran amistad con el poeta Luigi Tansillo. Se le asocia a la Accademia dei Sereni, y su ingenio y erudición fueron objeto de aprecio en los círculos de la cultura napolitana. También se relacionó con el círculo de Juan de Valdés; de hecho, se le considera uno de sus exponentes más brillantes y activos en lo que respecta a la difusión de las ideas valdesianas. El único escrito suyo que se conserva es un tratado sobre fortificaciones e ingeniería militar dedicado a Felipe II. La temática de la exposición no impide que el texto recoja testimonios sumamente valiosos, como, por ejemplo, el de algunas reuniones con Alfonso d’Ávalos y Giulia Gonzaga, o la reconstrucción de juicios expresados por Agostino Nifo y Garciaso de la Vega.

Más información en: http://www.treccani.it/enciclopedia/mario-galeota_(Dizionario-Biografico)https://www.wikidata.org/wiki/Q61998971https://es.wikipedia.org/wiki/Mario_Galeota.

 

 

Toscano, Tobia. “Fabio o Mario Galeota? Sull’identità di un rimatore napoletano del XVI secolo”, Filologia e critica (2010: 178 – 203).

1. Nella prima edizione delle Rime di diversi illustri signori napoletani, e d’altri nobiliss. intelletti, (Venezia, Giolito e fratelli, 1552, pp. 100-148 e 354-56)1 si leggono 52 componimenti «dello illustre signor Fabio Galeota» divisi in due blocchi di 48 + 4. Tale distribuzione viene conservata anche nella seconda edizione del 1555 (pp. 116-64 e 418-20), benché nel frattempo fosse apparsa nelle Rime di diversi eccellenti autori raccolte dai libri da noi altre volte impressi tra le quali se ne leggono molte non più vedute (Venezia, Giolito, 1553) una più corposa silloge di 58 pezzi, questa volta senza soluzione di continuità, ma con perentoria indicazione in testa al sonetto 35 di Seconda parte dei Sonetti del S. Fabio Galeota, benché le forme metriche ivi impiegate siano di varia tipologia. Nonostante l’assoluto rilievo di ordine quantitativo nel contesto dei signori napoletani2., e gli indizi non meno accattivanti, a distanza di appena un anno, di una strutturazione d’autore che incrementa di sei unità il suo corpus non solo, ma ne ridisloca in maniera significativa le tessere microtestuali, facendo iniziare la seconda parte con un compianto in morte della donna amata:

Or come pace mia, come mia vita,
hai me lassato in tenebrosa guerra?
È dunque ver che copra poca terra
la tua beltà celeste e infinita? (35, vv. 1-4),

dopo che nel sonetto immediatamente precedente aveva rivolto inutile preghiera ad Apollo perché la guarisse da malattia mortale, offrendo in cambio la sua vita:

Febo, dovunque sei, in Cinto o ’n Delo,
o se raccendi in ciel l’usata face,
movi u’ la donna mia languendo giace
e per l’ossa a me corre un freddo gielo,
ché temo assai (ma nol consenta il cielo),
non morte sfaccia il viso ch’or me sface:
mora io, se al cielo il viver vostro spiace,
squarciando solo il mio terrestre velo. (34, vv. 1-8),

codesto Fabio Galeota rimane un fantasma sul quale tacciono i repertori sette-ottocenteschi o ne parlano solo per segnalarne la presenza nelle raccolte prima citate.3. Solo in anni recenti si è cominciato a notare lo spazio rilevante a lui riservato «in questo sapido ritratto di una generazione quarantenne […] tenuto conto dell’originale percorso di racconto che le tessere lirico-amorose galeotiane a loro modo esibiscono»,4. ma è valutazione del tutto generica rispetto al referto folgorante di Marco Ariani, che a lettura finita ha rilevato la «maniera aspra, tormentata, francamente a-petrarchesca di Fabio Galeota […], ossessionato dalla morte e da una musa cupa e disperata, ma insieme preziosamente scheggiata in un espressionismo dai tratti quasi naïf».5. Nel contesto di questa raccolta fa spicco l’inserzione di tre capitoli in terza rima, indicati esplicitamente come elegie, che avevano in precedenza attirato l’attenzione degli studiosi dei generi poetici,6. senza però che si procedesse sul terreno dell’identificazione.
È vero che l’identificazione di un petrarchista in più in tanta abbondanza non è poi grande acquisto. Ma qui paradossalmente incuriosisce il caso inverso e cioè di come sia possibile che fra i signori napoletani tutti rigorosamente censiti all’anagrafe letteraria possa rimanere fuori dalla storia, isolato Carneade, l’autore della silloge se non più corposa certo più ambiziosa. Mi piace ricordare che gli appunti che seguono siano nati durante il lavoro di completamento dell’edizione del Canzoniere di Luigi Tansillo lasciata interrotta da Erasmo Pèrcopo, che nell’introduzione al primo volume, annoverava tra gli amici del poeta Mario Galeota, destinatario di tre capitoli tansilliani (i, viii e ix),7. dando ragguagli, oltre che sulla bibliografia, anche sulle sue relazioni letterarie:

E poiché il Galeota fu amico di Garcilasso della Vega e questi cantò l’amor di Mario per Violante Sanseverino nella famosa sua ode “A la flor de Gnido”, è quasi certo che le poesie contenute, col nome di Fabio Galeota, nelle Rime di div. sign. napolet. (Venezia, 1552) e nelle Rime scelte da div. autori (Venezia, 1564), ove si canta pure una “Violante”, sian di Mario […], essendo facile, per gli stampatori veneziani, lo scambio fra “Mario” e “Fabio” il quale, del resto, non si trova mai ricordato fra i rimatori napoletani.9.

La sottolineatura del quasi vuole rimarcare l’insolita prudenza di cui Pèrcopo ammanta la sua proposta e la necessità di rinvenire ulteriori e definitivi indizi per corroborare un’identificazione che andrebbe ad arricchire il profilo umano e culturale di una delle personalità di maggior rilievo nella Napoli cinquecentesca, esperto di fortificazioni, ma soprattutto silenzioso e tenace fedele di Juan de Valdés, dei cui scritti fu custode e fece eseguire trascrizioni, a più riprese finendo tra le spire del Santo Uffizio.10. Ai tempi di Pèrcopo la storia del Galeota “eretico” era ancora tutta da scrivere, ma tuttavia sufficientemente nota attraverso le prime ricostruzioni di Scipione Volpicella (1876-77), Karl Benrath (1878) e Luigi Amabile (1892, pp. 147-49), e si spiega perciò come egli imputasse lo slittamento del nome da Mario a Fabio a incuria dei tipografi e non piuttosto a una scelta dettata da elementare prudenza, quanto meno per evitare imbarazzi ai sodali signori napoletani, dal momento che era finito nelle maglie della personale inquisizione di don Pedro de Toledo già dall’ottobre del 1548.11. Anche si spiega perché l’interesse per Mario/Fabio Galeota sia stato tenuto vivo presso gli esegeti di Garcilaso de la Vega, essendo in gioco l’identificazione dell’amico, a beneficio del quale il poeta spagnolo aveva intonato una delle sue odi più perfette, e della donna inutilmente amata, l’uno e l’altra nominati attraverso sottili giochi di parole.

2. Questa piccola storia ha inizio nel 1574, allorché il professore salmantino di retorica, Francisco Sànchez de las Brozas (detto il Brocense), pubblicò le opere di Garcilaso e a proposito di questa ode commentò:

En Napoles ay un barrio que se dize, Il Segio di Gnido, que es como una parte donde se ajuntan los Cavalleros. Allí avia muchas damas, entre las quales una llamada Violante Sanseverino, hija del Duque de Soma, era servida de un amigo de Garcilasso llamado Fabio Galeota: de los quales nombres juega el Poeta en esta Oda, porque quando dixo, Convertido en Viola, aludio a Violante. Y quando dixo, A la concha de Venus amarrado, significò a Galeota, como si dixera, forçado a la galera de Venus. Porque Venus aparecio en el mar en una concha. Entre las rimas de diversos Poetas, ay una elegia de Fabio Galeota a Violante, que comiença: Andrete senza me cara Violante.12.

Seguì nel 1580 il monumentale commento di Fernando de Herrera, che ritenne di non poter accedere a tale conclusione:

Tienen muchos por opinion que escrivio G. L. esta cancion por Fabio Galeota cavallero Napolitano, hijo de Vincencio Belprato conde de Aversa [sic], que (segun es fama) servia a Violante Sanseverino, a quien dizen que el mesmo Fabio enviò aquella elegia Toscana, que comença assi;
Andrete senza me cara Violante.
Mas don Antonio Puerto Carrero afirma, que no la escrivio su suegro si no por Mario Galeota. el qual piensa que sirvio a doña Catalina Sanseverino ermana del principe de Bisiñano, i muger del duque de Trageto, que en la rebelion de los señores de Napoles, cuando murio Lautreque enel cerco de la ciudad; fue degollado de los Españoles. i assi dize Alonso de Ulloa en la vida de don Fernando de Gonzaga, siguiendo a Iorio [sic per Iovio] en el lib. 26. que fueron cortadas en Napoles las cabeças a los dunque de Boyano, i Venafro i a Federico Gaetano. i dize Geronimo Britonio en la relation, que enviò a Roma de las fiestas, que se hizieron en Napoles por la elecion de Carlo Quinto al imperio; que casò Federico Gaetano, hijo primogenito del duque de Trageto, con doña Catalina Sanseverino, hija de Bernardino principe de Bisiñano i de doña Leonor Picolomini, i ermana de Pedro Antonio Sanseverino principe de Bisiñano i de dona Maria Sanseverino condessa de Nola, muger de Enrico Ursino. esto es lo mas cierto, que se puede afirmar en cosa tan poco importante, i tan apartada, porque pensar que fue escrita a doña Violante, porque dize;
Convertido en viola
es congetura mui flaca, i de poco fundamento.13.

Gli esegeti di Garcilaso sanno che Herrera, pur di contraddire le conclusioni del Brocense, spesso spaccasse il pelo in quattro, ma qui va ben oltre il segno, invocando il supporto dell’auctoritas del genero del poeta, per concludere che il vero beneficiario dei versi fosse non Fabio bensì Mario Galeota, innamorato però di Caterina e non di Violante Sanseverino, infine sentenziando sulla improponibilità del senhal come indicazione in cifra del nome della donna. Si sorvoli pure sulla vistosa inesattezza circa la paternità di Fabio (non si capisce come un Galeota possa essere figlio di un Belprato), ma si osservi invece come la testimonianza de relato passi dal più vincolante afirma, posta a base dell’identificazione dell’amico, per poi declinare a un meno perentorio piensa a sostegno dell’indicazione della donna amata, con il paradosso di annegare l’unico elemento di novità in una palude storico-genealogica del tutto impertinente. La ricostruzione della querelle interpretativa determinata dalla correzione di Herrera alla tesi del Brocense si può leggere nel commento di Bienvenido Morros all’edizione critica di Garcilaso:14. l’approdo passa per un calibrato intervento di Eugenio Mele,15. che non segue «ninguno de los dos», perché «la oda fue escrita por Mario Galeota, que amaba a Violante Sanseverino, hija de Alfonso Sanseverino, duque de Soma, y de María Díaz Carlón», adducendo come prova dirimente del legame sentimentale un epigramma di Berardino Rota Ad Marium Galeotam,16. tutto giocato sull’immagine delle viole amorevolmente coltivate ed irrigate da Amore con le lacrime dell’amante, ma di cui gode in fine un ferus … Ursus, con trasparente allusione alla relazione extramatrimoniale con Giulio Orsini, conte di Monterotondo. Ma se dubbio non sussisteva sull’identità dello spasimante di Violante, il poeta che a Violante si rivolgeva non poteva che essere Fabio, a mente della testimonianza delle antologie poetiche cinquecentesche, nonostante pure si sapesse di un’attività poetica di Mario e la curiosa conseguenza che la stessa donna avesse contemporaneamente uno spasimante, per il quale trepidavano i suoi amici poeti, e un poeta che cantasse il suo amore per lei, entrambi con lo stesso cognome ma di nome diverso. Tornò in seguito sulla questione Eugenio Mele17. e questa volta la concluse a favore di Mario, fondandosi sull’autorevolezza di Erasmo Pèrcopo e facendo proprie le conclusioni della nota al Canzoniere di Tansillo riportata in precedenza, che riteneva i tipografi veneziani autori del mutamento del nome. D’altronde si trattava di economico restauro che investiva solo le consonanti lasciando invariate prosodia e vocali. Neanche era mancato chi aveva pensato di risolvere il problema facendo di Mario e Fabio un’unica persona ricordata dalle fonti ora con un nome ora con con un altro:

Fabio Mario Galeota, a Neapolitan gentleman, was a disciple of Juan de Valdés; he was thrown into the prison of the Inquisition at Rome, and had the good fortune to escape on te memorable day of the 18th of August, 1559, when, on the death of Paul IV, the Roman populace attacked the dreaded institution. Tho him, Garcilasso, who knew him in the mutual society of Valdés at Naples, addressed the celebrated ode, called “Flower of Gnidus”, and his thirtyfifth sonnet, beginning “Mario, el ingrato amor como testigo”.18.

Questa volta la citazione proviene dal fronte degli studi su Valdés e l’amico di Garcilaso è associato al fedele seguace del mistico di Cuenca, ricordandosi anche il son. xxxv (Mario, el ingrato amor, como testigo), dove viene espresso solo il nome, mentre nell’ode con raffinta perifrasi si allude al cognome:

Hablo d’aquel cativo
de quien tener se debe más cuidado,
que ’stá muriendo vivo,
al remo condenado,
en la concha de Venus amarrado (Canción v 31-35),

dove la sottolineatura investe i segmenti di testo traducibili come “prigioniero condannato al remo” e quindi “galeotto”, in napoletano propriamente “galeota” e in spagnolo “galeote”. Che si trattasse di rapporto non effimero, ma profondo e affettuoso ci dice anche l’altra menzione di Marius meus dell’ode latina ad Antonium Thylesium (v. 58) sul cui sfondo si intravede l’ambiente dell’accademia Pontaniana. Pertanto non sembra possa sussistere dubbio che il Galeota amico di Garcilaso sia stato Mario e che, anche con l’ausilio dei versi di Rota, si possa interpretare il v. 28 («convertido en vïola»), come allusione al suo amore per Violante Sanseverino. Ancora ai versi di Rota si può far ricorso per intendere l’intera strofe in cui è inserito il verso ora citato:

y cómo por ti sola
y por tu gran valor y hermosura,
convertido en vïola,
llora su desventura
el miserable amante en tu figura (ivi 26-30).

La chiosa di Bienvenido Morros è inappuntabile: «‘el miserable amante, pálido cual la viola amarillenta, llora… convertido en la figura de doña Violante’, recordando una idea y varias de las visiones con que la había desplegado Petrarca: la transformación del amante en la persona amada, ilustrada con una imagen vegetal, que depende del nombre de la amada (viola-Violante) y de la palidez del rostro del amante».19. Ma si ricordi, e si assuma come indizio della notorietà negli ambienti colti di Napoli della metamorfosi di Mario per amore di donna Violante, che nel Sylvarum seu metamorphoseon liber di Rota la terza selva reca il titolo Violae con dedica a Mario Galeota («Tu violas, tu carmen amas, en accipe utrunque», v. 3).20. Insomma il sussiegoso antico commentatore di Garcilaso aveva visto male ritenendo la conclusione del Brocense «congetura mui flaca, i de poco fundamento».

3. Il rapporto Mario Galeota-Violante Sanseverino, secondo Garcilaso, è tra una donna caratterizzata da aspereza che chiude ogni varco e un innamorato, poeta a sua volta, la cui musa è ora ridotta alla esclusiva modulazione di suoni lamentevoli:

Por ti su blanda musa,
en lugar de la cíthera sonante,
tristes querellas usa
que con llanto abundante
hacen bañar el rostro del amante (ivi 46-50),

senza escludere che le tristes querellas possano alludere proprio al trattamento della forma elegiaca e in particolare alla prima (Andrete senza me, cara Violante) delle tre che si leggono nelle antologie cinquecentesche. Che il poeta toledano fosse a conoscenza della produzione poetica dell’amico napoletano si rileva anche da altro indizio e, probabilmente, più cogente, allorché sembra voler esorcizzare che la spietatezza della donna abbia potuto avere una origine comune a quella di mitologiche creature nate dalla terra:

No fuiste tú engendrada
ni producida de la dura tierra,
no debe ser notada
– que ingratamente yerra –
quien todo el otro error de sí destierra (ivi 61-65),

dove è chiaro il riferimento al son. 17 di Fabio/Mario, che aveva a sua volta delineato ritratto così impietoso da lasciar traccia nella memoria di uno scrittore eccentrico e certo poco incline ai rituali del petrarchismo come Tommaso Garzoni, che ne citava la prima quartina in un seletto campionario di dipinture della crudeltà:21.

Donna, che siate de le pietre nata
si scopre a mille prove e si dimostra:
tra primi uomini fu l’origin vostra
in pietre anticamente seminata.
Una voi foste alor pietra serbata
per adornarne questra etate nostra,
in cui somma beltà viva si mostra
di pietra in carne e ’n ossa trasformata:
carne l’ossa, la carne copron rose,
ligustri, amor e primavera eterna;
v’adorna amor e più ch’altro vi spetra:
gli occhi e ’l viso leggiadro e l’altre cose,
l’andar e l’ora, tutta vi governa.
Solo il cor (lasso!) vi rimase pietra.

Nel suo insieme il sonetto, oltre a essere condensato specimen di petrarchismo poco calligrafico, appare tutto inscritto nei pochi versi di Garcilaso, che ne ricevono luce indiretta, rendendo preferibile l’interpretazione di Elias L. Rivers,22. se non altro più lineare di quella proposta da Bienvenido Morros,23. che non coglie nel distico «No fuiste tú engendrada / ni producida de la dura tierra» l’allusione al mito della rinascita dell’umanità dopo il diluvio a opera di Deucalione e Pirra (cfr. Ovidio, Met., I 347-415) del tutto evidente nei versi di Galeota.
Si può provvisoriamente concludere che indubitabilmente Mario Galeota, amico di Garcilaso, sia stato innamorato di una donna di nome Violante, come testimoniano anche i versi di Berardino Rota, e che tanto Garcilaso che Rota facciano chiaro riferimento a una sua attività poetica con indizi che rinviano al corpus poetico intestato a Fabio Galeota, la cui lettura è necessaria per un eventuale recupero di ulteriori elementi riconducibili alla biografia di Mario.

4. Si è detto che la notorietà di Mario Galeota è soprattutto legata al suo sodalizio con Juan de Valdés e ai processi inquisitoriali subiti a più riprese nella seconda metà del Cinquecento. Ripercorrendone la biografia,24. si ha modo di osservare come, pur essendo nato tra la fine del ’400 e i primi anni del ’500, la sua vita sia trascorsa abbastanza appartata fino alla notorietà non desiderata dovuta alle disavventure con il Santo Uffizio. Sposato intorno al 1520, era padre di otto figli nel 1536. Nel 1534 entrò nella Compagnia dei Bianchi di Giustizia, una confraternita che assisteva i condannati a morte, diventandone governatore nel 1541, per esserne espulso nel 1552 in concomitanza forse con i primi processi per eterodossia.25. La sua attività prevalente fu quella di esperto addetto alle fortificazioni militari. Nel 1539, dopo lo sbarco e il saccheggio di Castro da parte dei turchi di due anni prima, ebbe il comando di un corpo di 300 uomini per pattugliare le coste della Calabria. In questa regione la famiglia Galeota deteneva i diritti feudali su Monasterace. Dalle testimonianze raccolte in vari processi è stato possibile ricostruire la complessa esperienza religiosa di Mario, profondamente influenzata dalla consuetudine con Juan de Valdés, giunto a Napoli nel 1534, delle cui opere si fece apostolo, facendole ricopiare da scrivani appositamente assunti, tanto da diventare dopo la morte del mistico spagnolo (1541) il principale vettore dei suoi scritti, tra i quali Galeota tradusse in italiano un commento ai Salmi su richiesta di Giulia Gonzaga. Attraverso Valdés era entrato in contatto con Pietro Martire Vermigli e Bernardino Ochino, e in seguito con Marcantonio Flaminio. Si sarebbe dopo la morte di Valdés inutilmente adoperato per ottenere l’autorizzazione a stamparne delle opere. All’indomani della repressione dei tumulti del 1547 contro l’introduzione dell’Inquisizione al modo di Spagna, fu sottoposto a inchiesta da parte del viceré Toledo, e il principale testimone a carico fu il bresciano Giusto Seriato, uno dei due scrivani assoldati per trascrivere le opere di Valdés. Trasmessi gli esiti dell’inchiesta a Carlo V nel giugno del 1549, l’imperatore consigliò prudenza, per quanto ritenesse il comportamento di Galeota passibile di arresto. Nel corso del 1552 fu condannato al soggiorno obbligato nel suo feudo calabrese. Nel 1555 si trovava a Roma in attesa di giudizio e nello stesso anno, dopo un breve ritorno a Napoli, fu di nuovo tradotto in carcere a Roma, dove rimase fino al luglio 1559, quando fu liberato in seguito ai tumulti scoppiati alla morte di papa Paolo IV. In occasione delle sue vicende romane Galeota chiese aiuto a Girolamo Seripando, già generale degli Agostiniani e futuro cardinale, con il quale era in rapporto di parentela. In estrema sintesi, giacché gli eventi noti della sua vita vanno molto oltre gli anni dell’attività letteraria documentata, si ricorderà che fu di nuovo processato nel 1567 e solo nel 1571 ritornò alla sua attività di tecnico militare e civile. Fu molto longevo, essendo morto nel 1585. Galeota è autore di un Trattato delle fortificazioni recentemente edito,26. di cui aveva dato le prime diffuse notizie Scipione Volpicella.27. Il trattato affronta una materia più ampia di quella indicata nel titolo e potrebbe essere guardato come più ampio e generale discorso de re publica, in cui le risorse militari (uomini, mezzi e fortificazioni) sono considerate solo a scopi meramente difensivi, dovendo avere il monarca come obiettivo supremo la conservazione dello stato da reggere con prudenza e giustizia. L’opera, che nel panorama del pensiero napoletano prima di Bernardino Telesio non ha mancato di attirare per i suoi tratti innovativi l’attenzione di Nicola Badaloni,28. fu composta in un lasso di tempo abbastanza ampio, ancora vivente Carlo V, di cui si ricorda la «felice memoria» nella dedica a Filippo II, e si ritiene ultimata intorno al 1560, sebbene non manchino proposte di datazione più basse.29. Al nostro discorso interessa che, a un venticinquennio abbondante dalla morte, Mario Galeota ricordi il suo amico Garcilaso in un passaggio cruciale, in cui si sostiene che un principe prudente non debba farsi limitare nella conoscenza degli huomini da cortigiani interessati, soprattutto quando si tratti di fare elezione di sudditi cui affidare uffici di governo, evitando il rischio di favorire una natione a scapito di altre:

Prossimo a questo defetto mi pare il servirsi di una natione, potendo servirsi ancora delle altre […]. Ma ottima cosa mi pare di doversi servire di tutto con elettione, essendo certo che non mancano de buoni per tutto, come per tutto non mancano de cattivi. E ben dicea a questo proposito l’honorata memoria di Garsilasso della Vega, huomo raro di ingegno, di valore, et di lettere, che non si trovavano se non due nationi solo nel mondo, l’una delli buoni, et l’altra de tristi. Et già si vede che i buoni non ostante che tra loro sia diversità di lingua et di paese contrattano spesso amicitia strettissima, come fu tra me et lui, et così i cattivi quando tutti si dilettano di un male.30.

Il ricordo di Garcilaso huomo di lettere è una delle rare aperture su un passato ormai lontano,31. ma difficilmente si cercherebbero accenni in tutto il Trattato delle fortificazioni sulla pregressa attività letteraria dell’autore, che pure, al lordo dell’enfasi ironica che talora connota la scrittura di Ortensio Lando, ne aveva conseguito nei Paradossi alto elogio come scrittore, il cui stile andava preferito addirittura a quello di Boccaccio:

Florido stile chiamerassi [i. e. del Decamerone] non essendo atto a scrivere altro che facezie, novelluzze, buffonerie e simili ciancie? Felice stile chiamerassi bene con miglior ragione quel del signor Mario Galeota, florido stile dirassi ben meritamente quel di monsignor di Catania,32. li quali riescono facilmente per cantar gesti eroici, per comporre comedie, scrivere tragedie, far dialogi, trattar cose sacre e anche tradurre di una lingua in l’altra. E così vogliono essere li stili, e non solamente atti cicalare e dir la novella di frate Cipolla, o di Calandrino.33.

La presenza di Mario Galeota è ricorrente nelle opere di Ortensio Lando, che fu a Napoli tra il 1527 e il 1531 e lo pone come interlocutore del Cicero revocatus, composto tra il 1529 e il 1531,34. segno che già prima che giungessero a Napoli Garcilaso e Valdés egli fosse diventato personaggio di spicco negli ambienti culturali che gravitavano intorno ai Seripando e al cenacolo di San Giovanni a Carbonara. La sua consuetudine con l’ultima generazione dei Pontaniani è segnalata dai versi che gli indirizzano i fratelli Anisio, Giano35. e Cosma,36. mentre nei Carmina di Marcantonio Flaminio è possibile cogliere in filigrana il culto per la poesia del defunto Sannazaro, sicché pare del tutto naturale leggere il suo nome nella schiera dei promotori dell’accademia dei Sereni nel 1546 nominati dal cronista sincrono Antonino Castaldo,37. sebbene poi non figuri tra i firmatari dello statuto pubblicato da Benedetto Croce38. e nemmeno sia citato nell’orazione pronunciata in solenne adunanza da Berardino Rota.39. All’altro capo resta, dopo una fugace apparizione nel 1569 nei costituti di Niccolò Franco quale presunto autore di pasquinate contro il defunto Paolo IV,40. la tarda partecipazione alla raccolta in lode di Giovanna Castriota stampata nel 1585,41. utilmente riesumata da Volpicella, che oppotunamente rileva come al sonetto di proposta di Scipione de Monti «Mario fece rispondere con un altro sonetto, verseggiato in suo nome»42. in cui declinava l’invito a tessere le lodi della dama. Ma la tarda testimonianza conferma, dopo le prime attestazioni di Garcilaso e Berardino Rota, che l’attività poetica di Galeota fosse proseguita anche negli anni tardi della vecchiaia,43. sebbene si debba per ora ritenere dispersa a eccezione della silloge tramandata a nome di Fabio Galeota.

5. A fondamento della proposta di identificare Fabio con Mario Galeota, attribuendo al secondo i versi che vanno sotto il nome del primo, occorre assumere l’ipotesi che il mutamento del nome non sia addebitabile ai tipografi, ma che a Lodovico Dolce sia stato somministrato un manoscritto in cui l’intestazione era già stata scambiata. Se infatti ciò fosse avvenuto senza il consenso dell’autore, non si spiegherebbe perché non si rimediasse nelle more tra la prima e la seconda emissione del 1552, allorché l’impianto della raccolta subisce delle significative rettifiche. A maggior ragione sarebbe inspiegabile la perseveranza nell’errore in occasione dell’uscita l’anno dopo delle Rime di diversi eccellenti autori raccolte dai libri da noi altre volte impressi, ad opera dello stesso curatore, al quale nel frattempo era stata inviata una raccolta arricchita di sei componimenti, strutturata in due parti esplicitamente segnalate, con interventi sulla dislocazione dei testi, che in qualche luogo appaiono aver subito mutamenti di lezione. Si deve immaginare che i sodali fossero a conoscenza della vera identità che si celava dietro Fabio, tanto più che le due emissioni del 1552 vengono allestite e pubblicate proprio a cavallo della prima detenzione e conseguente processo. Trattandosi tuttavia di presenza ingombrante, si spiega anche la quasi totale assenza di rime di corrispondenza e la propensione a sfumare le allusioni al proprio vissuto, sebbene qualche relitto autobiografico sembri affiorare, oltre i ricordati versi per Violante Sanseverino. Tale mi pare il caso del son. 10:

Mentre navi apparecchia e schiere armate
il superbo tiranno d’Oriente
e vien ratto a turbar questo Occidente
de le nostre serene alme contrate,
con le sue schiere Amor, schiere spietate,
e mille morti et un pensier cocente
ognor combatton l’affannata mente,
ove io son lunge a l’alte luci amate.
Lasso, che crudel guerra acerba amara!
Un re, ch’ha di noi cura, altero invitto
tanti confonde e ’l mondo ne rischiara.
Al mio possente più ch’altro tiranno
non si contrasta e ben nel cor m’è scritto
quanto da sempre irreparabil danno.

Il chiaro riferimento nell’incipit al sonetto 130 Mentre navi et cavalli et schiere armate di Bembo al Giberti44. introduce la rievocazione dei preparativi di guerra che il “tiranno d’Oriente” minacciava ai danni delle coste orientali del Regno, essendosi impadronito nel 1537 di Castro, di là facendo scorrerie in terra d’Otranto. Fu necessario l’intervento di don Pedro de Toledo per mettere in fuga i turchi e l’evento fu celebrato anche da Tansillo in due sonetti.45. Anche nei versi 10-11 di Galeota c’è un riferimento all’impresa del Viceré (qui definito semplicemente un re), che avendo cura dei suoi sudditi sbaraglia i nemici e illumina il mondo con le sue gesta, ma la finalità principale del sonetto è nel paragone che si istituisce tra la guerra esteriore (che si può vincere) e la guerra interiore scatenata da Amore (“possente più ch’altro tiranno”) quando il poeta è lontano dalla sua donna. Sembrerebbe che l’autore dei versi abbia direttamente partecipato agli eventi e in questo caso nella biografia ricostruita da Volpicella, che si giovò di documenti in possesso dei discendenti, si legge che nel 1539, al fine di scongiurare nuovi attacchi dei turchi, «il viceré don Pietro di Toledo, fatta la chiamata de’ baroni e gentiluomini all’armi, prepose Mario a trecento fanti col titolo di capitano. È forza congetturare che in questa occorrenza, o di corto, fosse stato al Galeota addossato il peso d’attendere al fortificare in Calabria, ch’egli sostenne, come narrava aver in Catanzaro osservato».46. Nel Trattato delle fortificazioni si parla solo della soprintendenza alle fortificazioni di Catanzaro («come io già feci a Catanzaro»),47. ma non del contesto in cui fu affidato l’incarico. Né mancano altri versi in cui è chiara l’allusione a trasferimenti, si direbbe, verso Sud-Est, che comportano l’allontanamento anche dalla donna amata. Così nel son. 6, 1-4 rivolto a un non identificato Roberto:

Ben andiamo, Roberto, incontro al giorno,
onde ne scopre il sol la faccia d’oro;
ma trovo notte ove ch’io vada, e moro
perché non veggio il mio bel sol adorno,

dove il viaggio verso oriente, qui da intendersi oriente relativo rispetto a Napoli, potrebbe riferirsi sia all’attività di presidio delle coste dalle scorrerie dei turchi, sia a un momentaneo trasferimento nel proprio feudo di Monasterace in Calabria, che comporta il venir meno della visione della donna-sole, non compensato dallo spettacolo offerto dal sole-astro nel suo apparire all’orizzonte. Il son. 21 tuttavia mi pare si possa proporre come indizio ancor più evidente della riconducibilità di questo corpus poetico a Mario Galeota, per la pregnanza del riferimento geografico-paesaggistico:

Sagra, nel tuo fiorito e ricco seno
mentre che co’ rapaci armati augelli
caccio gli inermi semplicetti e snelli
per far al tristo cor qualche sereno;
di morte (ove ch’io vada) e d’amor pieno
caccio, ma novi occorron sempre e felli
co’ pensieri i pensieri a me rubelli,
vento contrario a lo stato sereno.
Se quanto bagni per vie torte e tarde
viva contento e lodi il nostro impero,
quanti m’uccidon mai pensieri inonda.
La fiamma no, che dolce al mio cor arde:
ma che? vatene al mar quanto vuoi altero,
sei a la fiamma mia, sei menoma onda.

Il poeta è intento a una battuta di caccia al falcone lungo le rive del fiume Sagra, cui si rivolge chiedendo di annegare nelle sue acque i pensieri molesti che non lo abbandonano. Allo stato attuale la denominazione di questo fiume, ricordato dagli storici greci per essere stato teatro di una omonima battaglia combattuta nel sesto secolo a.C. tra gli eserciti di Locri Epizefiri e Crotone, è contesa tra le fiumare Torbido e Amusa (o Allaro). La fiumara Amusa sfocia nel mare nei pressi di Monasterace Marina ed è quindi probabile che il sonetto sia stato composto da Mario in uno dei numerosi soggiorni nel suo feudo calabrese, che fa da sfondo anche ad altri componimenti, assumendo i tratti del locus amoenus, orgogliosamente denominato magna Grecia, contrapposto al disordine e alla boria della capitale, e nel quale il poeta insieme a pochi fidati amici può dedicarsi, al netto dei crucci amorosi, a ciò che veramente gli sta a cuore: la lettura dei classici e la riflessione. Notevole sotto questo aspetto è l’elegia terza (componimento cinquantaquattresimo della serie), indirizzata in forma di epistola a un Antonio Caracciolo, amico rimasto a Napoli e che sembrerebbe del tutto immemore del poeta lontano («Mentre che voi vario piacer trastulla, / Caracciol mio, ne la cittate vostra, / la magna Grecia e io siamo nulla», vv. 1-3), in cui sono evidenti gli spunti polemici che investono una società fondata sulle apparenze e dominata dalle ricchezze, sebbene il dettato di Galeota non sia privo di una qualche oscurità, non si saprebbe dire se strategicamente perseguita o conseguenza invece di un governo non eccelso della forma:

Che fate voi ne la città superba
ove si trema al caldo e suda al gelo?
A che secol noioso omai ne serba?
Spiegate ogni speranza vostra in ombra,
tutti i frutti talor mietete in erba.
Nova e strana vaghezza il cor n’ingombra:
cresce Napoli in gente e in tesoro,
d’animo e di valore ognor si sgombra.
Amo quei soli, oggi quei soli onoro,
che vita in mezzo ai boschi vivon lieta,
vita vera, tranquilla e santa e d’oro.
O s’io mai giungo a questa eccelsa meta,
se d’ogni mio pensier me pongo in bando
e mai vento contrario non me ’l vieta,
giuro torre da voi perpetuo bando,
starmi rinchiuso in solitaria parte,
poco noto a me stesso e non so quando. (vv. 17-33)

Al disordine morale della città si contrappone la vita “in mezzo ai boschi”, vagheggiata come approdo stabile e definitivo, e di cui ora i versi raccontano un assaggio, ricapitolando una scansione di eventi in cui largo spazio è devoluto alla lettura dei classici, Omero e Virgilio soprattutto:

Or del viver si face e di me parte
a l’Alberti amoroso, al buon Roberto;
con lor volgo latine e greche carte,
quando è più freddo l’aere e più coperto,
se mena Arturo o s’Orione piove,
luogo al mar cerchiamo e al sol aperto.
Allor è nostro il ragionar di Giove,
allor cantiamo a torno acceso foco
e d’Achille e d’Enea l’altere prove. (vv. 34-42)

Il “buon Roberto” sarà da identificare con il destinatario già ricordato del son. 6, mentre “l’Alberti amoroso” che completa la piccola compagnia può essere identificato, in carenza di altre notizie, con il Cesare Alberti, presente nelle Rime di diversi illustri signori napoletani del 1552 (pp. 218-223), ma non nelle Rime scelte del 1553, con nove sonetti, due dei quali rivolti a Galeota.48. Un ideale di vita oraziano regolato sui ritmi naturali così diverso dal disordine morale della città:

Così passiamo con piacer la luce:
quando cade dal ciel la notte oscura,
ai corpi sonno, pace a l’alme adduce.
Voi come, o degli dèi fervida cura,
giunto a Febo ornamento et a le Muse,
prezzate gente che virtù non cura?
Non vi turban le menti altrui confuse,
l’odio civil, la ingiusta guerra orrenda,
tante aperte al mal strade e al ben chiuse? (vv. 61-69)

La parsimonia di riferimenti che possano favorire l’identificazione delle persone evocate nei versi è spiegabile ed è sperabile che succesivi approfondimenti possano diradare l’oscurità che ancora sussiste.

6. A completare il quadro dei componimenti rivolti ad amici e sodali, tre almeno presentano un alto tasso di insidiosa suggestione, vale a dire i sonn. 28, 31 e 32. Nel primo il poeta si rivolge a un Antonio («O de l’anima mia parte seconda, / Antonio…») dagli inconfondibili tratti di poeta («A voi danno le Muse e vostra stella / saziar la sete che ’n me sempre abonda», vv. 7-8), al quale Galeota esprime il rammarico di non poterlo seguire nella totale dedizione alla poesia, perché distratto dalla passione amorosa:

Voi fortunato a sì bel studio intento,
la magna Grecia e la più dotta Roma
accordate col santo viver nostro;
i’ che pur sono de le Muse e vostro,
misero!, d’esser preda mi contento
di due begli occhi e d’una bionda chioma.

Devo ammettere che forte è stata la tentazione di emendare nostro in vostro al v. 11, ma lo schieramento compatto delle due fonti principali (confermato anche dalle ristampe) che leggono appunto nostro, induce a cogliere il riferimento a un modello di vita condiviso, quasi comunitario, sicché il poeta “a sì bel studio intento”, di trasferire cioè nei moduli della classicità il vissuto spirituale suo e dei sodali, potrebbe essere anche Marcantonio Flaminio,49. che di Mario Galeota divenne amico appena giunse a Napoli,50. come testimoniano gli endecasillabi latini che gli rivolge e da cui traspare una consolidata consuetudine che chiama in gioco comuni interessi letterari per di più all’ombra del maestro Sannazaro:

Tu ne, docte Mari, tuo sodali
ne potes consulere, ut suas ineptas
nugas edat et ora per virorum
vagari sinat? Actio ne vestro
me contendere vis? […]51.

Il fatto che Flaminio chiami in causa Mario Galeota come consulente per la sua produzione in latino è ulteriore indizio di una sua diretta pratica della letteratura e insomma ben oltre la semplice lettura delle latine e greche carte, di cui è menzione nella ricordata terza elegia. Indi procedendo si incontra il son. 31:

Donna, che con la mente al ciel salita
qui tutta armata d’umiltade il petto
spargi gran pianto e con cortese affetto
biasmi questa mortal noiosa vita;
poscia ch’ogni tua voce è a Dio gradita,
guarda quanto a Natura fai dispetto:
il sole è oscuro c’ha mutato aspetto
e per pietà di te la via smarrita.
Vesti un bel viso et una lieta gonna
e fa ridendo le tue usate prove:
rendi la luce ai bei superni lumi.
Tanti oscurar, piangendo, sacri lumi,
serenargli col riso, o bella donna,
questo è proprio lo scettro torre a Giove.

I versi sono rivolti a una donna di grande bellezza, che ha compiuto una scelta di vita ascetica e di disprezzo del mondo, sicché la Natura sembra patire l’assenza del suo sorriso, al punto che anche il sole si è oscurato. Di qui l’invito del poeta perché ritorni al sorriso in modo da restituire la luce agli astri, quasi che in lei sia maggior potere che in Giove. Difficile, pur in assenza di qualche appiglio più stringente, allontanare l’ipotesi che la donna in questione sia donna Giulia Gonzaga, che dell’enclave valdesiana a Napoli fu la vera musa ispiratrice e la dislocazione stessa di questo sonetto a poca distanza dal n. 28, prima riferito a Marcatonio Flaminio, si carica ancor più di suggestioni quando si legge il sonetto che immediatamente segue (n. 32):

Saggio scrittor de l’onorate carte,
solo d’onor rifugio o d’onestate,
nostro sovrano ben a cui comparte
quanto ha di grazia il cielo e di bontate,
con quai pronti pensieri e con qual arte
sopra umano veder volando andate!
Felice voi, che tante voci sparte
vi faran conto a la futura etate.
Oh, s’io seguissi le vestigia sante
de le vostre celesti altere scorte
e di cosa mortal non fossi amante:
di null’altra sarei contento o pago.
Ma fuggo il viver mio, seguo la morte,
né posso del mio mal non esser vago.

Potremmo trovarci di fronte a un sonetto rivolto direttamente a Juan de Valdés. Non nominato perché non nominabile,52. ma pare difficile trovare nel panorama napoletano di quegli anni altro personaggio circonfuso dalla stessa aura di santità promanante dai suoi scritti e dalla sua vita. In alternativa si potrebbe avanzare solo la candidatura di uno ‘spirituale’ come l’agostiniano Girolamo Seripando, al quale Mario pure si rivolse nelle distrette del secondo processo, ma non si vede perché tacere un nome che proprio nel 1552 poteva offrirgli autorevole malleveria di ortodossia.

7. Rinviando di necessità ad altra sede l’esame complessivo della raccolta, giacché in questa sede premeva proporre gli elementi cui è possibile ancorare la proposta di identificazione dell’autore, sostituendo nei ruoli della letteratura napoletana del Cinquecento al fantasma di Fabio la realtà di Mario Galeota, si deve in breve avvertire che dei 58 componimenti, i primi 50 sembrano configurarsi come un breve e condensato “canzoniere” (con tutte le flessibilità di impiego che ormai il termine coinvolge dopo alcuni decenni di studio sulla varia fisionomia delle raccolte di rime), mentre gli ultimi 8 si possono leggere come sezione aggiunta, in cui convivono rime encomiastiche e funebri. Non si vuole scomodare l’esempio di Bembo, ma a lettura ultimata è netta l’impressione che l’espediente tipografico di indicare all’altezza del sonetto 35 l’inizio della seconda parte, imponga di far conto della prevalenza di rime in morte (sonetti 35-45) cui tien dietro una breve sezione spirituale (sonetti 46-50).
Alquanto arduo è tuttavia spiegarsi perché l’elegia a Violante Sanseverino, la donna che attraverso Garcilaso de la Vega sappiamo essere stata amata da Mario Galeota, venga così a trovarsi oltre i confini che delimitano la ‘storia’ di amore e di morte raccontata. La donna crudele, da cui il poeta inutilmente attende un gesto di attenzione, domina incontrastata in vita e in morte, senza che ne venga mai citato il nome. Una sola volta, nel contesto della canzone n. 15, una disperata con schema rimico identico a RVF 126, pare che il poeta lo indichi allusivamente:

Donna di te più bella
non nacque mai, non nasce,
non da poi nascerà mille e mille anni.
Di pietà più rubella
donna di te non pasce
di fele altrui, né di perpetui affanni.
Ah, perché ne’ miei danni,
perché nascesti in terra,
cosa celeste altera,
poi che spietata e fera,
mi dovevi tor pace e darmi guerra
e con mortal durezza
tu stessa violar la tua bellezza? (vv. 27-39)

Se si eccettua la ricorrenza di violar al v. 39, che potrebbe avere la valenza di un senhal, non mi pare di aver rinvenuto nelle restanti 49 rime del blocco 1-50 altri elementi di identificazione della donna. Ma se si tratta veramente di Violante Sanseverino, bisognerebbe conoscere la data della sua morte e soprattutto capire il motivo che ha consigliato la collocazione della famosa elegia fuori dalla ‘storia’ amorosa. Sempre che non sia stata una scelta di carattere squisitamente metrico, giacché nella sequenza 1-50 risultano impiegati solo sonetti, ballate e canzoni, mentre nella sezione finale si leggono in successione una canzone di schema petrarchesco (di schema identico alla n. 15), tre “elegie” in terza rima, due componimenti in endecasillabi sciolti, il secondo dei quali dedicato a Giovanna d’Aragona,53. e due sonetti di tematica estranea alla vicenda amorosa. Una brevissima digressione si impone per ricordare non solo che l’elegia si rivolge a Violante (n. 52) ancora vivente e fulgente nella sua bellezza, ma che sia difficile indovinare la destinazione della partenza ormai prossima che comporterà la separazione degli amanti:

Andrete senza me, cara Violante,
ov’i cavalli suoi non mena il sole,
o vi sovenga mai del vostro amante? (vv. 1-3)

Se il luogo così impervio da essere inaccessibile alla luce del sole (v. 2) sia comunque riferibile al regno dei vivi e non dei morti, riesce di ardua collocazione. In altro punto si rileva che la donna è costretta contro la sua volontà a compiere un viaggio non desiderato:

Sia maladetto chi ha di voi governo,
s’ir errando vi fa, Violante bella:
tra nevi andrete a star chiusa in eterno.
Lasso!, la nostra usata primavera
chi la trasforma a noi sì tosto in verno? (vv. 35-39)

Ma che di una separazione momentanea si tratti è confermato dalla conclusione dell’elegia, in cui il poeta ribadisce che sarà il pensiero a unire ciò che viene allontanato dalla vista:

E con gli occhi e co’ pié stanchi e col duolo,
non possendo seguirvi, o luce mia,
vosco ne vengo col pensiero a volo.
Così a voi innanzi a tutte l’ore sia
e sciolga nessun tempo l’amor nostro,
né mai luogo ne vieti o sorte ria
che voi nel mio, io stia nel pensier vostro. (vv. 115-21)

A turbare semmai ulteriormente il quadro sin qui delineato è la canzone 51, collocata immediatamente prima dell’elegia a Violante, che narra la metamorfosi di una donna di nome Beatrice, refrattaria ad Amore, che infine si vendica facendola innamorare (come Narciso) della sua bellezza riflessa in uno specchio:

Un giorno mentre torna
al vetro, come sòle,
de l’imagine propria s’inamora. (vv. 27-29)

Nel momento in cui la donna sta per soccombere, Amore per pietà le fa vedere nello specchio l’immagine invecchiata e raggrinzita dell’oggetto amato, sicché Beatrice rinsavisce e depone la sua crudeltà:

A clemenza Amor mosso,
di tormentare stanco,
sana di questa inferma il pensier egro:
tristo fa il volto allegro
mostrar a lei lo specchio,
e ’l giovanetto biondo,
bello più ch’altro al mondo,
canuto, orrendo e spaventevol vecchio.
Beatrice a noi gentile
tutta celeste rende e tutta umile. (vv. 134-43)

È il congedo che, introducendo un riferimento alla donnna del poeta ancora in vita:

Canzon, la donna nostra, ovunque è, trova
e dille: o bella, o scaltra,
consiglia che non sia superba ogni altra. (vv. 144-46),

scompiglia il quadro delineato, rendendo necessaria l’ipotesi prima affacciata di una serie di rime extravaganti, a partire da questa canzone, che però non presenta soluzione di continuità con il componimento n. 50, mentre la separazione di ciò che segue è autorizzata quanto meno dalla titolazione autonoma dei singoli pezzi. Si potrà però ritenere che, alla luce di questa osservazione, il fatto che la seconda parte sia esplicitamente esibita come seconda parte dei sonetti la denominazione convenga solo alla sequenza 35-50 formata appunto esclusivamente di sonetti.

8. Un cenno infine ai cinque sonetti spirituali che forma la sottosequenza conclusiva nella serie 1-50, il secondo dei quali fa parte dei sei componimenti aggiunti nella stampa del 1553. Il son. 46 è un’accorata preghiere al Padre superno perché guidi l’anima sulla via del cielo, onde ritrovare anche la donna che lo ha lasciato nel dolore:

Tu l’alma acqueta e tu sana la mente,
mostra prego il camin, ond’a te saglia
e a chi m’ha lassato in cotal sorte. (vv. 12-14)

Sarebbe lecito attendersi, considerata la spiritualità del personaggio, discorsi ben altrimenti caratterizzati teologicamente rispetto alla media temperie del petrarchismo, ma si converrà sulla necessità di evitare una eccessiva esposizione da parte dell’autore, cui la modifica del nome non sarebbe più bastata per occultarne la vera identità se avesse assunto posizioni precise su temi cruciali. Non si capisce però perché un anonimo lettore abbia tracciato sulle pp. 518 e 519 di un esemplare conservato a Napoli della ristampa 1564 delle Rime scelte54. dei tratti di penna che attraversano longitudinalmente il testo dei sonetti 47-50, quasi a volerne sconsigliare la lettura. Tra i versi vittima di questa rudimentale censura, segno che negli anni a seguire la conclusione del concilio di Trento alcuni nervi fossero particolarmente scoperti, fa spicco la preghiera a Cristo in croce affidata al son. 48:

Se per camparsi la tua bella greggia
da morsi ingordi e da vorace fere,
avenne già ch’arbitrio a genti fiere
tu fussi e scherno la tua eccelsa seggia,
or che non è chi a’ miei danni proveggia
e gli armati pensier crescono in schiere,
a l’orrende del mondo aspre maniere
non sia che tu no intenda, io te non veggia.
Non è cosa in me (lasso) ch’a te piaccia,
ma se tu n’ami e se tu pur ne chiami
aperto il mostran le tue aperte braccia.
I tuoi in nessun tempo non disami,
ch’io possa dir: – O buon pastor, ti piaccia
che, gran tempo smarrito, or mi richiami.

Qui il tono di confidente abbandono fa centro intorno all’idea del sacrificio di Cristo come pegno di amore per tutti gli uomini redenti, che indistintamente sono ‘chiamati’ alla salvezza, pur senza essere detentori di alcun merito (cfr. v. 9). Non si vuol forzare più del dovuto il dettato, chiamando magari indebitamente in causa il Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Cristo crocifisso verso i cristiani (Venezia, Bindoni, 1543) e che a Napoli ebbe vasta diffusione, ma semmai leggere i versi come spia di una presa sempre più vistosa sui laici colti (e quindi anche sui petrarchisti) della riflessione sulla Croce, che, negli stessi anni in cui impegnava il serrato colloquio di Vittoria Colonna con Michelangelo,55. aveva trovato forse la sua rappresentazione più plastica nel Crocifisso eseguito da Giorgio Vasari nel 1545 per la cappella Seripando in San Giovanni a Carbonara, recentemente proposto da Riccardo Naldi56. come specimen della particolare spiritualità del principale committente, Girolamo Seripando appunto, ma anche della cerchia a lui vicina, in cui fa spicco quel Girolamo Scannapeco, che di Galeota fu compagno di sventure inquisitoriali venendo a morte proprio nel 1552, in concomitanza con l’apparizione di Mario sotto le mentite spoglie di Fabio nelle Rime di diversi illustri signori napoletani.


1. Di questa prima edizione esistono due emissioni, la prima con dedica datata 9 dicembre 1551, la seconda 14 maggio 1552, con modifiche del frontespizio, la più vistosa delle quali comporta il passaggio da terzo libro a quinto libro, l’aggiunta di un quaderno iniziale segnato *A e la composizione ex novo del quaderno segnato A. Altre modifiche investono la parte finale del libro, ma non i fogli su cui sono stampati i versi di Fabio Galeota. La seconda emissione di questa antologia verrà riproposta identica nel 1555. Per ulteriori dettagli, cfr. T. R. Toscano, Le Rime di diversi illustri signori napoletani: preliminari di indagine su una fortunata antologia, in Id., Letterati corti accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2000, pp. 183-200.
2.Lo supera solo Ferrante Carafa, discreto ma decisivo patronus dell’operazione editoriale, con 63 componimenti, entrambi tenendo a debita distanza i più noti Berardino Rota (33), Angelo Di Costanzo (32) e Luigi Tansillo (23).
3.Tale il caso di Minieri Riccio (1844, p. 139), che lo colloca addirittura nel sec. XV.
4.R. Girardi, Libri di rime in biblioteca: tradizione dei testi e canone lirico nel Cinquecento meridionale, in Biblioteche nel Regno fra Tre e Cinquecento, Atti del Convegno di Studi (Bari, 6-7 febbraio 2008), a cura di C. Corfiati e M. de Nichilo, Lecce, Pensa MultiMedia Editore, 2009, pp. 245-263 (a p. 257).
5.M. Ariani, I lirici, in Il Cinquecento, a cura di G. Da Pozzo, tomo secondo («Storia letteraria d’Italia», nuova ed. a cura di A. Balduino), Padova, Piccin-Vallardi, 2007, pp. 943-998 (a p. 962).
6.V. de Maldé, La elegía poética en Italia en los siglos XVI y XVII, in La elegía. III Encuentros Internacionales sobre poesía del siglo de oro (Sevilla-Córdoba 14-17 de noviembre de 1994), Sevilla, Segretariado de Publicaciones, Universidad de Sevilla, 1996, pp. 41-73 (a p. 64).
7.Luigi Tansillo, Capitoli giocosi e satirici, a cura di C. Boccia e T. R. Toscano, Roma, Bulzoni Editore, 2010, pp. 115-128 e 199-236.
8.Pèrcopo mostra di non conoscere la prima edizione del 1553 di questa silloge, che pure contiene rime di Tansillo, ma aveva in precedenza (p. xx) ricordato la ristampa del 1556 e la successiva del 1563.
9.Luigi Tansillo, Il canzoniere edito ed inedito secondo una copia dell’autografo ed altri manoscritti e stampe, a cura di E. Pèrcopo, Napoli, Società Editrice della Biblioteca di scrittori meridionali, vol. I, 1926, p. clxvii, nota.
10.Sullo specifico delle vicende inquisitoriali relative a Mario Galeota, cfr. P. Lopez, Il movimento valdesiano a Napoli. Mario Galeota e le sue vicende col Sant’Uffizio, Napoli, Fiorentino, 1976. Per quanto riguarda la fisionomia complessiva del gruppo e le strategie di proselitismo poste in essere, cfr. M. Firpo, Tra alumbrados e «spirituali». Studi su Juan de Valdès e il valdesianesimo nella crisi religiosa del Cinquecento italiano, Firenze, Olschki, 1990 e Id., Introduzione a Juan de Valdés, Alfabeto cristiano, Torino, Einaudi, 1994.
11.La prima deposizione resa dal bresciano Giusto Seriato, copista stipendiato da Mario Galeota per la trascrizione delle opere di Valdés, è integralmente edita da G. Coniglio, Il viceregno di don Pietro di Toledo (1532-1553), Napoli, Giannini Editore, 1984, pp. 561-570.
12.L’opera ebbe varie edizioni. Cito da Obras del excelente poeta Garcilaso de la Vega con notas del Brocense, en Madrid por Juan de la Costa, 1612, c. 107v.
13.Obras de Garcilasso de la Vega con anotaciones de Fernando de Herrera, en Sevilla por Alonso dela Barrera, 1580, p. 266.
14.Garcilaso de la Vega, Obra poetíca y textos en prosa, edición de B. Morros, estudio preliminar de R. Lapesa, Barcelona, Crítica, 1995, pp. 429-430. Tranne diversa indicazione, i testi di Garcilaso sono citati da questa edizione.
15.E. Mele, Las poesías latinas de Garcilaso de la Vega y su permanencia en Italia, «Bulletin Hispanique», 25 (1923), pp. 108-48, 361-70; 26 (1924), pp. 35-51.
16.Berardino Rota, Carmina, a cura di C. Zampese, Torino, Edizioni RES, 2007, p. 102.
17.E. Mele, In margine alle poesie di Garcilaso, «Bulletin Hispanique», 32 (1930), pp. 218-225.
18.B. Wiffen, Life and Writings of Juan de Valdés […], London, Bernard Quaritch, 1865,  p. 105.
19.Garcilaso de la Vega, Obra poetíca, cit., p. 86.
20.Berardino Rota, Carmina, cit., p. 155.
21.«Il signor Fabio Galeota, dipingendo la crudeltà della sua donna, disse in un suo giudicioso sonetto, ancor lui le seguenti rime per detestarla»: Tomaso Garzoni, Il teatro dei vari e diversi cervelli mondani [1583], in Id., Opere, a cura di P. Cherchi, Napoli, Fulvio Rossi, 1972, pp. 39-235 (a p. 183).
22.“no debe ser conocida por haber cometido el pecado de la ingratitud una persona (como tú) que se guarda de todo los demás errores”: Garcilaso de la Vega, Poesías castellanas completas, edición de E. L. Rivers, Madrid, Editorial Castalia, 1986, p. 96, che a differenza di Morros non racchiude in trattini incidentali il v. 64.
23.Garcilaso de la Vega, Obra poetíca, cit., p. 89: «‘No debe ser celebrada (notada) –porque yerra de ingratitud– quien aleja de sí completamente el error ajeno (el otro error)’ en clara referencia al de Anajárete’». Il mito di Anassarete viene rievocato da Garcilaso subito dopo, ma sembra poco economico interpretare otro come ‘altrui’, soprattutto alla luce dei versi di Galeota che tessono un catalogo di mirabilia della donna, il cui unico difetto, al cospetto di tutti gli ‘altri’ pregi, è l’aver conservato il cuore duro come le pietre da cui nacquero i “primi uomini”, per i quali invece Morros (p. 88) chiama in causa gli uomini nati dai denti di dragone seminati da Cadmo o i giganti sorti dalla terra arata da Giasone.
24.A. Pastore, «Galeota, Mario», DBI, 51, 1998.
25.Cfr. la testimonianza di Girolamo Spinola, cappellano della Compagnia, resa nel luglio del 1566 (P. Lopez, Il movimento valdesiano a Napoli, cit., p. 157.
26.O. Brunetti, A difesa dell’Impero. Pratica architettonica e dibattito teorico nel Viceregno di Napoli nel Cinquecento, con la trascrizione del Trattato delle fortificazioni di Mario Galeota, Galatina, Mario Congedo editore, 2006, pp. 229-294.
27.S. Volpicella, Mario Galeota letterato napoletano del XVI secolo, «Atti della reale accademia di archeologia, lettere e belle arti», viii (1876-1877), pp. 135-194.
28.N. Badaloni, Fermenti di vita intellettuale a Napoli dal 1500 alla metà del 600, in Storia di Napoli, Napoli, Società ed. Storia di Napoli, vol. V, t. I, 1971, pp. 654-657.
29.C. J. Hernando Sánchez, Castilla y Nápoles en el siglo XVI. El virrey Pedro de Toledo: linaje, estado y cultura (1532-1553), Salamanca, Junta de Castilla y León, 1994, p. 410, ritiene che la composizione sia collocabile tra la fine del primo e l’inizio del secondo processo (1565).
30.In O. Brunetti, A difesa dell’Impero, cit., p. 267.
31.Prima che i rapporti si guastassero per motivi religiosi e politici, don Pedro de Toledo aveva sollecitato per Mario Galeota dei favori da parte dell’Imperatore con una lettera dell’agosto 1534 affidata proprio a Garcilaso: cfr. C. J. Hernando Sánchez, Parthénope, ¿tan lejos de su tierra? Garcilaso de la Vega y la poesía de la corte en Nápoles, in Garcilaso y su época: del amor y la guerra, editores J. M. Díez Borque, L. Ribot García, Madrid, Sociedad Estatal de conmemoraciones culturales, 2003, pp. 71-155 (a p. 91).

32.Si tratta di Nicola Maria Caracciolo (1513-1567), dedicatario del secondo libro dei Paradossi (la princeps lionese è del 1543), del cui “florido stile” non rimangono tracce, che sono invece molto cospicue per quanto attiene la sua frequentazione con Mario Galeota e il suo interesse alla letteratura ‘eretica’, stando alla testimonianza, resa da altro sodale di entrambi, il casertano Giovan Francesco Alois (poi finito decapitato il 4 marzo 1564 in piazza del Mercato a Napoli), riferita a Filippo II dal viceré Pedro Afán de Rivera, donde si rileva «que tenía en su poder los Sermones de fray Bernardino de Sena, y El beneficio de Cristo, y otros scriptos de mano del Valdesio herejiarca»: Benedetto da Mantova, Il beneficio di Cristo con le versioni del secolo XVI. Documenti e testimonianze, a cura di S. Caponetto, Firenze-Chicago, Sansoni-The Newberry Library, 1972, p. 457.
33.Ortensio Lando, Paradossi, cioè sentenze fuori del comun parere, a cura di A. Corsaro, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000, p. 247.
34.Cfr. M. Fuiano, Insegnamento e cultura a Napoli nel Rinascimento, Napoli, L.S.E., 1971, p. 109, nota 188, con la bibliografia ivi citata, donde si rileva che Ortensio Lando fu ospite del convento agostiniano di San Giovanni a Carbonara.
35.Iani Anysii Varia poemata et satyrae, Neapoli,  I. Sultzbach, 1531, c. 119r.
36.Cosmi Anysii Poemata, Neapoli, I. Sultzbach, 1533, c. 70v.
37.Dell’istoria di notar Antonino Castaldo libri quattro […], in Raccolta di tutti i piú rinomati scrittori dell’istoria generale del Regno di Napoli, Napoli, Giovanni Gravier, tomo VI, 1769, pp. 33-143 (a p. 72)
38.B. Croce, L’accademia dei Sereni, in Id., Aneddoti di varia letteratura, vol. I, Bari, Laterza, 1953, pp. 302-309.
39.Per il testo dell’orazione di Rota cfr. T. R. Toscano, Un’orazione latina inedita di Berardino Rota “principe” dell’accademia dei Sereni di Napoli, in Id., Letterati corti accademie, cit.,  pp. 299-325.
40.Mercati, I costituti di Niccolò Franco (1568-1570) dinanzi l’Inquisizione di Roma, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana 1955, p. 123.
41.Rime et versi in lode della ill.ma et ecc.ma s.ra d.na Giovanna Castriota Carr. […], in Vico Equense, appresso Gioseppe Cacchi, 1585, p. 160, con l’intestazione Ris. in nome del Galeota.
42.S. Volpicella, Mario Galeota letterato napoletano del XVI secolo, cit., p. 193.
43.Anche la proposta di Scipione de Monti è di per sé testimonio eloquente che i contemporanei fossero a conoscenza dell’attività di versificatore di Mario: «Tu che del mondo a l’orride tempeste, | saggio nocchiero, il tuo navigio hai scorto | da Scille e Sirti in un tranquillo porto | e in queta calma da procelle infeste, || e scrivi in rime sì dolci e conteste, | che sembri nuovo Orfeo fra noi risorto, | manda il bel nome da l’occaso a l’orto […]».
44.Edizione di riferimento: Pietro Bembo, Le Rime, a cura di A. Donnini, Roma, Salerno Editrice, 2008, p. 321.
45.Sonetti 216 e 240: Luigi Tansillo, Rime, Introduzione e testo a cura di T. R. Toscano, Commento di E. Milburn e R. Pestarino, Roma, Bulzoni Editore,  2011, pp. 653-654 e 689.
46.S. Volpicella, Mario Galeota letterato napoletano del XVI secolo, cit., p. 182.
47.In O. Brunetti, A difesa dell’Impero, cit., p. 253.
48.Qual pianeta, signor, qual ciel vi sforza, cui risponde per le rime il son. 22 del nostro (Cesare, se ’l pianeta che mi sforza), e Dunque, sempre vorrà nemica sorte. Ma si tenga però conto che nessuna indicazione tipografica mette in relazione i sonetti di Alberti con il destinatario, che solo nel secondo viene indicato esplicitamente al v. 9 («Galeota gentil, sgombrate a pieno»). Anche il son. 43 è dedicato ad Alberti. Altro corrispondente poetico è Giovan Luigi Riccio, autore del son. Fabio, che col dir vago e pellegrino, cui risponde Galeota con il son. 45 (Ricci, se ’l vostro ingegno alto divino).
49.È vero che a rigore potrebbe trattarsi del ricordato Antonio Caracciolo, destinatario della terza elegia, dalla quale però non si ricava cenno alcuno di una sua attività poetica, benché per tema e contesto non mancassero spunti per alludervi.
50.Secondo la ricostruzione biografica di A. Pastore, «Flaminio, Marcantonio», DBI, 48, 1997, Flaminio fu a Napoli, con puntate a Sessa Aurunca presso Galeazzo Florimonte e a Caserta ospite di Giovan Francesco Alois tra il 1538 e il 1541, avendo modo di intrattenere rapporti con Valdés e con Giulia Gonzaga. Dati i rapporti di Mario Galeota con entrambi, a questo triennio andranno collegati i suoi rapporti con Flaminio.
51.M. Flaminio, Ad Marium Galeotam, in Carmina quinque illustrium poetarum, Florentiae, apud Laurentium Torrentinum, 1552, p. 226.
52.L’unico napoletano, che io sappia, ad aver dedicato esplicitamente dei versi a Valdés, sottolineandone l’attitudine riflessiva e la poca disponibilità a conversazioni troppo affollate, fu l’umanista Giano Anisio, Epistolae de religione et epigrammata, Neapoli, I. Sultzbach, 1538, c. 23v: ma si converrà che nel 1538 ancora non si correvano rischi a nominare e a frequentare Valdés.
53.E quindi edito anche nel Tempio alla divina signora donna Giovanna d’Aragona fabricato da tutti i più gentili spiriti et in tutte le lingue principali del mondo, Venezia, P. Pietrasanta, 1555, pp. 48-51.
54.Collocazione Banc. 8.A.29 della Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli.
55.Cfr. E. Campi, Michelangelo e Vittoria Colonna. Un dialogo artistico-teologico ispirato da Bernardino Ochino, Torino, Claudiana, 1994, cui si deve affiancare la pregnante lettura teologica dei sonetti spirituali di Vittoria Colonna proposta da C. Ossola, Introduzione storica a Juan de Valdés, Lo Evangelio di san Matteo, Roma, Bulzoni Editore 1985, pp. 82-93.
56.R. Naldi, Il Crocifisso per Girolamo Seripando e il suo contesto, in Marco Cardisco, Giorgio Vasari. Pittura, umanesimo religioso, immagini di culto, a cura di R. Naldi, Napoli, arte’m, 2009, pp. 107-135.