“Giovanni Francesco Anisio, che in accademia latinizzò il suo nome in Giano, fu uno dei pontaniani più longevi: nato in un anno non precisabile dell’ultimo trentennio del ’4001, risulta ancora tra i vivi nel 1539, essendo morto probabilmente l’anno dopo2. Ebbe così modo, da giovane, di vivere la fase culminante della dinastia aragonese e assistere poi al suo tramonto e al mutamento istituzionale che fece del Regno di Napoli una dipendenza della corona di Spagna.
Come Pontano, sebbene non al suo livello, scrisse versi esclusivamente in latino pubblicando tutte le sue raccolte tra il 1531 e il 1538. Ma già da una testimonianza del 1539 sappiamo che i lettori di poesia avevano ormai una spiccata preferenza per la poesia in volgare, sicché non solo la sua opera, ma anche quella di Pontano, era giudicata un residuo del passato da condannare alla polvere degli archivi3. Il resto fece la penna velenosa di Nicolò Franco che riversò sul mite umanista l’accusa allora infamante di pedanteria e omosessualità4, sicché si spiega che l’insieme della sua opera solo negli ultimi anni abbia cominciato a sollecitare la curiosità dei lettori5, sebbene siamo ancora lontani da una analisi sistematica che potrebbe probabilmente riservare qualche sorpresa.
La sua traiettoria biografica si muove tra il regno e la curia romana, anche se egli non fa mistero di preferire al trambusto della capitale l’otium tranquillo di cui poteva godere nel fondo avito di Domicella, ora in provincia di Avellino, sul versante orientale del monte Sarno, nel cui territorio si trovava (e ora ne avanza qualche resto) l’abbazia di Santa Maria delle Grazie, il cui beneficio gli era stato conferito nel 1513 dal cardinale Luigi d’Aragona6. Domicella viene così trasfigurata in tanti carmi nella ninfa Domicilla abbellita e vezzeggiata dal suo patronus in modo da poter gareggiare con ninfe ben più prestigiose come Antiniana o come Mergilina cantate da Pontano e Sannazaro7.
Il nostro Anisio volle chiamarsi Giano, e come Giano egli appare bifronte, nel senso che la sua vasta produzione, se si scorrono le prime due raccolte pubblicate nel 1531 e nel 1532, guarda al passato anche remoto della giovinezza, sotto il segno di un rapporto di clientela con il cardinale Pompeo Colonna, morto appunto nel 1532, quindi costringendo Anisio negli anni seguenti, dal liber del 1533 a quello del 1538, a costruire una nuova rete di relazioni, che include in primis il viceré don Pedro de Toledo, giunto a Napoli nel 1532: fanno spicco in questa fitta trama i versi indirizzati ai nuovi venuti quali Garcilaso de la Vega e Juan de Valdés. Ma di questo si dirà più avanti. Negli ultimi anni di vita egli appare sempre più legato ad altro personaggio importante della corte vicereale, Bernardino Martirano, segretario del Regno, e al fratello di lui Coriolano, che ospitavano gli amici letterati nella villa suburbana di Leucopetra, resa ancor più prestigiosa dal soggiorno di Carlo V reduce dall’impresa di Tunisi nel novembre del 15358.
[…]
5. Venendo al rapporto tra Giano Anisio e Garcilaso de la Vega, occorrerà innanzitutto sgombrare il campo dalla piccola svista occorsa a Eugenio Mele9, e attraverso di lui transitata nella tradizione dei commenti garcilasiani, che attribuì a Cosma Anisio, fratello di Giano, i due brevi carmi indirizzati a Garcilaso. L’equivoco si spiega perché nel 1533 furono stampati i Poemata di Cosma (Neapoli, I. Sultzbach), che raccolgono la varia produzione del fratello minore del Nostro, medico di professione e anch’egli al servizio del cardinale Colonna. Tale volume presenta una particolarità10 sfuggita ai lettori: dopo il frontespizio principale, seguito dai primi quattro libri, tra le cc. 76r e 100r, è inserito un Variorum poematum liber di Giano Anisio con nuovo frontespizio interno e in questo liber di Giano si leggono i versi a Garcilaso, e precisamente alle cc. 91v e 94r. È utile rileggerli se non altro perché sono la più precoce testimonianza letteraria sulla presenza di Garcilaso a Napoli e in assoluto contengono uno dei primi giudizi pubblici sull’opera e forse sulla persona e sul carattere del poeta spagnolo.
Ciò che a me pare degno di particolare attenzione è la tonalità colloquiale dei versi, che lascia scorgere nelle filigrane del discorso un rapporto già consolidato nei pochi mesi dopo l’arrivo a Napoli, che, se non implica un rapporto di amicizia (considerato il silenzio di Garcilaso su di lui nell’opera superstite), certo autorizza a ipotizzare una comune frequentazione nel contesto più ampio della società aristocratica napoletana nei mesi in cui venivano stabilendosi i primi legami con l’entourage di don Pedro de Toledo, arrivato a Napoli il 4 settembre del 1532. E Garcilaso era certamente persona che non passava inosservata.
Nel primo carme in endecasillabi faleci Anisio contrappone la vita serena che può trascorrere nella villa di Domicella alla tirannia del lusso e alle ansie della vita cittadina:
Ad Charisylam seu Charsilassum
Charisyla amice, divitis proles Tagi,
cur invides mihi otium pulcherrimum,
hos et recessus perbeatos liberos
vestris ab istis regibusque et luxibus?
Hic integra vel fraxino imposta focis 5
ardente Mulcibre frigus urens pellimus,
vernis cachinno dulce perstrepentibus.
Hic Sirius cum saevus urit aequora
flavis aristis compta fluctuans caput,
proiecta ramos fagus alta umbraculis 10
aut vitis imbricata scaena plurima
arcet calorem delicato frigore,
felix opaco tegmine atque Liberi |
laetis racemis suavisucco nectare.
Non ora centum docta voxque ferrea 15
praeconio aequent ruris aurei bona
quis cum vel urbis ista mutes gaudia
contacta et hydrae viro et ore Cerberi. 11
La contrapposizione tra i ruris aurei bona e gli urbis gaudia è tema topico da Orazio in poi; il tema non è originale, ma sembrerebbe lecito dedurre dai versi di Anisio una implicita recusatio dell’invito a preferire la città rivoltogli da Garcilaso. Se i versi appena letti possono fare riferimento a un generico tema di conversazione tra un uomo che vive in corte tra armi e lettere e un umanista che delle lettere ha fatto scelta esclusiva, molto più confidenziali appaiono le espressioni del breve carme che si legge a c. 94r:
Ad Charisylan seu Charsilassum
Seu te Minerva vertit in lapidem dea
sapientiae arduo obrigentem lumine,
seu praeda Charitum ob nobilem speciem animi
ac corporis tibi nomen istud indidit,
vel quod Pelasgi sic pilosum nominant5
catumque sicco corde, denso pectore,
vel lassa nunquam beneficii est dandi domus tua,
nomen operis aestimamus inclytum
Charisyla amice Pieri sacris choris.
Dirò subito che non sono così sicuro dell’interpretazione data da Mele a suo tempo, né che io sia sicuro di poterne proporre una migliore, perché il latino dell’abate Anisio non sempre è agevole. Trovo però un po’ fuori di chiave il giudizio di Mele12, che giudicò di pessimo gusto la molteplice interpretatio nominis, dove invece a me pare sia più da cogliere una spia di intimità e di confidenza che rende possibile tra il serio e il faceto tratteggiare le doti spirituali e l’aspetto fisico dell’amico.
Provo a tradurre cercando di non allontanarmi dalla lettera del testo:
“Sia che la dea Minerva ti abbia mutato nella pietra che si indurisce grazie al bagliore della più elevata sapienza, sia che per essere preda delle Grazie per il nobile aspetto dell’animo e del corpo ti abbia imposto codesto nome, o perché i Pelasgi così denominano un uomo peloso e reso accorto da un cuore arido [sereno, imperturbabile] e da un petto chiuso [impenetrabile], o perché il tuo lignaggio mai è stanco di concedere favori, stimiamo illustre la fama della tua opera, caro Garcilaso per le sacre danze di Piero [padre delle Muse]”
La doppia variatio nominis indicata nel titolo (Charisyla seu Charsilassus) a rigore è sovrapponibile la prima ai vv. 3-4, in quanto formata su base greca con l’unione di charis (riferibile alle Grazie) e syle nell’accezione di ‘preda’, ‘bottino’, ‘conquista’; la seconda ai vv. 4-5, tenendo conto che il ricorso alla metatesi charsis rimanda al sostantivo greco kàrsis/eos che significa ‘tosatura’, ‘rasatura’ accoppiato all’aggettivo latino lassus, che significa ‘stanco’, fa assumere al composto il significato ‘stanco di rasatura’ e quindi ‘barbuto’, ‘peloso’ (o Nemoroso)13. Se invece si accettasse la proposta di Mele, che faceva riferimento a un inesistente lemma greco làzios (in realtà làsios) nel significato di ‘peloso’, non si comprenderebbe la funzione di karsis nel composto che varrebbe ‘peloso di tosatura’, né perché mai Anisio così preciso nella scelta delle parole usasse l’aggettivo con raddoppiamento lassus e non lasus. Per i vv. 7-8 sembrerebbe sottintendersi una ulteriore variazione onomastica del tipo ‘charis-lassus’ o ‘gracia-lassus’ non compresa nel titolo, ma non riconducibile a rigore né a Charisyla né a Charsilassus. Più complicato decifrare quale possa essere il lapis obrigens, alluso dal nome, in cui il poeta è stato trasformato da Minerva «grazie al bagliore della più elevata sapienza», riferendo per enallage a sapientia l’agg. arduus, nel testo latino in concordanza con lumen. Occorre dire che Anisio qui gioca di fino, creando un fitto reticolo di allusioni convergente sul sostantivo silex (= selce). Muovendo dalla definizione di Isidoro di Siviglia (Ethymol. 16.3.1): «Silex est durus lapis, eo quod exiliat ab eo ignis dictus (“la selce è così detta, perché da essa exiliat, balza fuori, il fuoco”)», e passando per il Cornu copiae 1.1.10 di Niccolò Perotti14, testo di grande diffusione in ambito umanistico e sicuramente noto ad Anisio («et silex secundum quosdam, quod saxi genus est, quia silentem intra se ignem habeat qui attritu et percussu excitetur») è possibile derivare l’idea che nei primi due versi la variatio nominis punti sulla forma charis-silex (= selce delle Grazie) nel senso che il bagliore folgorante di Minerva lo ha trasformato nella pietra che conserva dentro di sé il fuoco della sapienza capace di sprigionare scintille sotto l’azione delle Grazie. Non sono in grado di dire se Anisio accostasse l’etimologia di silex anche al greco sélas (= splendore, luce, lampo, fiamma) registrata nel più tardo Lexicon di Forcellini15 e quindi charis-sélas varrebbe ‘fulgore delle Grazie’, ma sempre per effetto del colpo di fulmine con il quale Minerva lo ha trasformato in silex che sprigiona scintille per attrito.
Non c’è dubbio che possa apparire eccessivamente confidenziale dare del ‘barbuto’ o del ‘peloso’ a un fascinoso hidalgo di Castiglia, di cattivo gusto non direi, se non altro perché a leggere bene potrebbe suonare persino come elogio, se e in quanto sembra cogliere la desenvoltura di un uomo di corte che esibisce i segni della sua virilità. Ma direi di più: «Catumque sicco corde, denso pectore» potrebbe evidenziare, in quella accortezza o scaltrezza determinata «da un cuore arido (imperturbabile) e da un petto chiuso» (intendendo densus nel senso di ‘impenetrabile, inaccessibile’), più che un atteggiamento di altezzosa aristocraticità, le doti di riservatezza che si richiedono all’uomo di corte cui il Viceré affidava delicati incarichi diplomatici. Se così non fosse, sembrerebbe immotivato il franco e chiaro elogio finale (uno dei primi se non il primo in assoluto) della musa di Garcilaso. Giacché in defintiva sembra che Anisio proprio questo volesse intendere: Garcilaso è un poeta eccellente, qualunque sia il modo in cui si voglia interpretare il suo nome. La scelta è ampia: charis-silex/sélas, charis-syle, karsis-lassus, gracia-lassus.
6. Allargando per un po’ lo sguardo all’insieme del liber di Giano Anisio pubblicato nel 1533 si può osservare come questo, a differenza dei due volumi stampati nel 1531 e nel 1532, quasi del tutto devoluti a fare bilancio e ricordo del passato e di amici e protettori in larga parte morti, sia pienamente immerso nella contemporaneità e come riveli un autore impegnato a dialogare con i nuovi venuti e accreditarsi come interlocutore affidabile, mostrando persino nei confronti di don Pedro de Toledo un atteggiamento di deferente cordialità, che lo spinge a suggerirgli un programma di governo per arginare il disordine politico del regno, in larga parte coincidente con le linee guida dell’azione politica che sarà dispiegata in processo di tempo dal Viceré. Ne estraggo i punti salienti:
Ad Ton Petreium Toletam
Hercules labor est nostrae componere mores
urbis, Petrei, sed labor
qui deceat fortem. Quare tu audentius ito
et compara hanc laudem tibi.
[…]
Dehinc dotes nimias et mollis corrige luxus
licentiamque perditam.
[…]
Supremus suus Alcidae est extinguere Cacos
honoreque afficere bonos
Parthenopenque suo collapsam labe veterni
restituere decori deam.
Pax data militiae est devictis hostibus, hanc tu
da civibus domi pater.
Auspiciis Carli virgo descendet Olympo
Astraea et orbem percolet
(c. 85r) 16
Anisio sembra interpretare il diffuso desiderio di riforma dei costumi e di consuetudini inveterate sulle quali allignavano le prepotenze del baronaggio e di corrotti funzionari dell’amministrazione, sicché, dopo aver auspicato uno stile di vita civile meno incline al lusso e perorato il risanamento urbanistico della capitale, invoca la restaurazione della giustizia, che saranno i due capisaldi del governo del toledano. Troppo precisi e numerosi i riferimenti alla strategia di governo del nuovo Viceré per ritenere che i versi siano esclusivo frutto di divinatio poetica e non piuttosto la cosciente e pronta adesione a un programma di lavoro, di cui Anisio si faceva disponibile divulgatore, presentandolo come aspirazione della parte sana della società. È vero che chiunque ha facoltà di indirizzare versi alla propria autorità di governo, senza che questa autorità se ne accorga, ma a quei tempi un libro stampato non passava inosservato, tanto più che in entrambe le raccolte dei fratelli Anisio si leggono in assoluto i primi versi in lode del Viceré a lui dedicati da letterati napoletani (i quali anche in futuro non saranno mai generosi nei suoi confronti)17. Quasi per accorciare le distanze, Giano ha disposto, poco prima di quello appena letto, un altro carme a don Pedro, nel quale, in forma ancora più estesa di quanto avesse fatto con Garcilaso, gli spiega perché preferisce la quiete della campagna di Domicilla alla vita della città ormai deserta di ogni virtù:
Ad Ton Petreium Toletam
[…]
Si quid opus tandem, Euboicam descendimus urbem
florentem Nolam, proximaque emporia.
Turba focos circum vernarum commoret: haec sunt
gaudia quae condit nectare simplicitas.
Simplicitas virtusque pedem hic posuere supremum
compulsae magnis urbibus ire procul.
Saepe mihi dulcis narrat Domicilla colonis
quae fuerit priscis vita, quod officium.
Commoda sed ruris complecti versibus esset
currere per magnum lyntribus Oceanum.
Rure datum nihil a diis est iucundius orbi,
foenus ubi uberius vitaque simplicior,
incompti lusus, incondita verba, cachinni, […]
Haec tenuit reditum Remora praedulcis in urbem
Petrei, haec Siren mirificeque placet
(c. 83r) 18
Qui, accanto a Domicilla, viene evocata anche la vicina città di Nola, sufficiente a fornire tutto il necessario: una enclave territoriale in cui ancora è possibile vivere all’insegna della simplicitas: è l’insistenza su dei toponimi così particolari, che difficilmente si sarebbero citati se non identificabili per il destinatario, a indurre l’ipotesi che i versi siano la traccia di un breve soggiorno del Viceré e del suo seguito a Nola, in una fase cruciale peraltro della storia della città. Faccio una breve incursione nei versi di Luigi Tansillo, che molti anni dopo, nel 1551, ringraziando don Pedro per aver liberato Venosa, città in cui era nato da padre nolano, dal peso delle guarnigioni di soldati spagnoli, ricordò il debito di gratitudine contratto con lui per un beneficio accordato all’altra e più amata patria che era Nola:
Quando Vostra Eccellentia venne al Regno,
non per suo ben ma per altrui salute
da Dio mandato che era mosso a sdegno,
che amore e conoscenza e servitute
io non vi aveva, se non quella sola
che aver si suol per fama a la virtute,
io ebbi ardir raccommandarvi Nola,
che stava alor come in catena servo
et ebbe alcun vigor la mia parola. 19
Si ritorna così agli inizi del viceregnato del Marchese di Villafranca: il poco più che ventenne Tansillo aveva perorato con felice esito la causa della sua città che stava alor come in catena servo: era infatti accaduto che don Pedro, tra i primi dossier da evadere trovò, per ordine di Carlo V20, la questione della demanializzazione della città già concessa a caro prezzo ai Nolani da Filiberto di Châlons principe di Orange il 29 luglio 1529, ma poi nuovamente infeudata a Francesca di Mombel principessa di Sulmona con diploma di Carlo V dato a Ratisbona il 21 giugno 1532; la città di Nola si oppose e l’Imperatore incaricò don Pedro di ripristinare il precedente atto del principe di Orange a patto che i nolani versassero alla principessa di Sulmona 10 mila scudi come adiutorio per acquistare la città di Boiano. Don Pedro avrebbe firmato il decreto che restituiva a Nola la condizione di città demaniale il 21 gennaio 1533. Si tratta ovviamente di atti meramente amministrativi che non richiedevano di norma sopralluoghi, che comunque non si possono escludere. Le testimonianze incrociate di Anisio e Tansillo potrebbero conservare la traccia di un’escursione a Nola della corte vicereale, trattandosi per di più di città strategica nel sistema difensivo del regno. Resta che l’anno 1533 fu salutato dai nolani come anno primo della restituita libertà tanto che il vescovo del tempo fece incidere la memoria dell’evento nel bronzo della campana della rinnovata cattedrale21.
Chiusa questa digressione, osserverei infine che nel liber di Anisio del 1533 troviamo anche la prima menzione in assoluto di Luigi Tansillo, presentato non come poeta ma come giovane desideroso di apprendere il messaggio degli antichi e in particolare di conoscere la giusta interpretazione dell’aforisma socratico ‘hoc unum scio, nihil scire’:
Ad Elysium Tansillum
Quid sit, rogasti, Socratis verbum vetus:
quod maxime scio, illud unum nescio.
Audi quid ipse interpreter magnum senem
sensisse, mente et corde candide Elysi.
Deum esse sese scire certo certius
aiebat; at quid esset hoc nondum tamen
tot esse seclis cognitum mortalibus
(c. 87r) 22
Oltre ad aggregare alla sua conversazione poetica altro e sicuro amico di Garcilaso, Anisio aggiunge versi indirizzati a molte dame napoletane del tempo, e tra queste alcune che avrebbero incrociato la traiettoria napoletana di Garcilaso: ricordo almeno Caterina (Catalina) Sanseverino, cui l’anziano abate dichiara un’ammirazione non priva di schietta nota di sensualità,24 e i vari carmi dedicati a Maria di Cardona, cui Garcilaso avrebbe indirizzato il son23. (Illustre honor del nombre de Cardona), uno dei quali ne esalta la bellezza divina che la rende simile alle divintà:
De Merine Cardona
Si quis Iunonem Veneremque et Pallada nunquam
vidit praecipuas nobilitate deas
atque hic Cardonam vidit laeto ore Merinen,
conspexisse deas dixerit aetherias.
Sed quando est animus multo formosior ore
non levis hoc tantum cernere iudicii est
(c. 97v) 24
Il resto della storia non ci dice se Garcilaso abbia corrisposto all’amicizia di Giano Anisio: avrebbe potuto menzionare il vecchio umanista solo nell’ode latina ad Antonio Telesio (Uxore, natis, fratribus et solo / exul…), in cui affiorano nomi di amici e di sodali dell’epigonismo pontaniano. Inutile congetturare sull’esistenza di versi perduti di Garcilaso, che probabilmente non trovò stimolante l’interlocuzione con una poeta dedito esclusivamente alla musa latina e che nei confronti della poesia in volgare non cessò mai di esprimere le sue pesanti riserve25. Proprio l’epigramma di chiusura del liber del 1533, con la presa d’atto che ormai la scena letteraria è occupata dagli Orlandi e dalla lingua degenerata che ne narra le vicende, potrebbe dire che il poeta venuto di Spagna, giovane d’anni ma già maturo nell’arte, non poteva certo consentire a una liquidazione che avrebbe messo in discussione le sue stesse scelte:
Ad Librum
Quando non vivis blanditur fama poetis,
Et quis consciscat fata suprema sibi?
Posteritas nostros cognoscat ut aequa labores
Hos pluteus tristi vindicet a carie.
Cedendum interea Rholandis degenerique
Sermoni et secli fecibus historiae
(c. 100r) 26
Anisio si fa testimone dell’irresistibile avanzata della materia cavalleresca che soppianta la tematica storica, evidentemente per lui unico argomento degno di poesia: immagine viva del precoce e diffuso successo del Furioso di Ariosto a Napoli negli anni di Garcilaso27, e tale da gettare una luce di ambiguità sull’epitaffio che egli stesso aveva dettato in morte del poeta ferrarese scomparso pochi mesi prima28:
Epitaph(ium) Litavici Ariosti
Cum Litavico una occubuit Mars, Phoebus et ipsa
Gallorum heroum nobilis historia
(c. 97v)29
A una prima lettura potrebbe sembrare un elogiativo compianto, e tale l’ho fin qui ritenuto, ma posto in relazione all’epigramma Ad librum, se colgo correttamente la polemica allusione alla marea montante degli Orlandi, sembrerebbe voler revocare in dubbio, morto l’Ariosto di cui implicitamente si riconosce il prestigio, la capacità della letteratura in volgare di sopravvivere continuando a coltivare, per adattare al nostro contesto una citazione da Bembo (Stanze 36, 7-8), «fole di romanzi e sogno et ombra, / che l’alme simplicette preme e ’ngombra». Perché in fondo Anisio neanche a Bembo era disposto a fare sconti; anzi, di lì a poco gli avrebbe imputato a dissipazione la dedizione eccessiva accordata al sermo tuscus chiamando in causa ancora una volta il «secolo ignorante»:
O seclum inscitum: tot commentaria sermo
tuscus habet, pauca et rancida Romuleus.
Et nisi me Bembus sancto cohiberet amore
illi ego nescio quid criminis intuleram:
plus operae his nugis impendit nobilis heros
quam tantum decuit forsitan ingenium 30
È possibile immaginare che il vecchio Anisio sia potuto apparire a Garcilaso un attardato laudator temporis acti chiuso nella difesa a oltranza della tradizione umanistica assediata dalla marea montante e inarrestabile della nuova letteratura in volgare, ma gli si può riconoscere almeno il merito di essere stato il primo a Napoli nel 1533 a consacrare l’inclytum nomen operis del poeta di Toledo”
Véase estos dos extractos de Tobia R.Toscano, “Le egloghe latine di Giano Anisio, “amico” napoletano di Garcilaso”, Eugenia Fosalba and Gáldrick de la Torre eds., La égloga renacentista en el reino de Nápoles, Bulletin Hispanique, Presses Universitaires de Bordeaux, December 2017, pp. 495-515.
1. Per i riferimenti alla biografia e al corpus delle opere di Giano Anisio rinvio al bel contributo di Carlo Vecce, «Giano Anisio e l’umanesimo napoletano. Note sulle prime raccolte poetiche dell’Anisio», Critica letteraria, anno XXIII, nº 88/89, 1995, pp. 63-80, che fa anche il punto sulla non copiosa bibliografia disponibile.
2. Sugli ultimi anni di Anisio, cf. T. R. Toscano, «Giano Anisio tra Nola e Napoli: amicizie, polemiche e dibattiti», in id., L’enigma di Galeazzo di Tarsia. Altri studi sulla letteratura a Napoli nel Cinquecento, Loffredo, Napoli, 2004, pp. 79-102.
3. Giovanni Battista Pino, nel 1539, e quindi alla vigilia della morte di Anisio, presentando «Alli studiosi dela volgar lingua» il Ragionamento del terremoto, del nuovo monte, del aprimento di terra in Pozuolo nel anno 1538… di Pietro Giacomo da Toledo (Napoli, Giovanni Sultzbach, 22 gennaio 1539), insisteva sulla inutilità di attardarsi a coltivare la poesia in latino, visto che il pubblico ormai era pienamente conquistato dalla letteratura in volgare: «L’epigramme (come sapete) sono d’i minimi poemi che siano; nondimeno, chi epigrammista di tempi nostri ha giunto non che trapassato li Sali e l’argucie di Marciale e d’Ausonio? Certo, nullo. Hor, che speme si può haver nel resto? E, per confirmar il suo dire, portò per essempio il Pontano et l’Anisio, le cui scritture sono oltre che divinissime, degne d’eterno nuome et a pena si cognoscono dal mondo».
4. Sulla feroce satira di Nicolò Franco contro Anisio rinvio al mio contributo citato in nota 2. In una prospettiva più generale, si cf. Jesús Ponce Cárdenas, «‘Ma io son pure napolitano’: Nicolò Franco e i circoli meridionali (1541-1543)», in Encarnación Sánchez García (dir.), Rinascimento meridionale: Napoli e il viceré Pedro de Toledo (1532-1553), Napoli, Tullio Pironti, 2016, pp. 203-234.
5. Segnalo due contributi di Sebastiano Valerio: «Il Protogonos di Aulo Giano Anisio: una tragedia nel tardo umanesimo napoletano», in S. Castellaneta e F.S. Minervini (eds.), Sacro e/o profano nel teatro fra Rinascimento ed Età dei lumi, atti del Convegno di Studi (Bari, 7-10 febbraio 2007), Bari, Cacucci, 2009, pp. 39-56 e «Il De principe di Aulo Giano Anisio», in Acta Conventus Neo-Latini upsalensis: Proceedings of the XIV International Congress of Neo-Latin Studies (Uppsala 2009), London-Leiden, Brill, 2012, pp. 1165-1175.
6. In una allegazione forense di Carlo Gagliardi (senza note tipografiche, ma quasi sicuramente stampata a Napoli e sottoscritta e datata, a p. 140, Napoli 10 ottobre 1766) intitolata Per la spedizione del regio exequatur sulla pontificia Bolla collativa della Chiesa parrocchial di Domicella […] contra l’impedimento opposto […] dal Monastero di S. Lorenzo d’Aversa… (Biblioteca Provinciale di Avellino, Bibl. di G. e S. Capone P inv. 1360) è riportata la trascrizione della concessione del beneficio a Giovanni Francesco Anisio da parte del cardinale Luigi d’Aragona «Datum Romae 27 novembris 1513».
7. Molti anni dopo la morte di Anisio si ricorderà di lui e di Domicilla Antonio Minturno, ospite e forse allievo di Giano ai tempi della peste del 1526, che includerà nei suoi Poemata ad M. Antonium Columnam (Venetiis, Apud Io. Andream Valvassorem, 1564, cc. 19r-21r) una lunga elegia intitolata Ad Ioannem Franciscum Anisium. Domicilla, in cui dopo un lungo discorso sulla peste che non risparmia niente e nessuno, ricorda nostalgicamente «Domicilla bonis sedes dilecta Camenis», fino all’apostrofe finale: «Fortunate senex, cui tam iucunda tenere / rura datum leteque locis gaudere beatis, / sic Dea, quae rebus solet invidisse secundis, / sit bona, sit felix, optata tibi ocia servet» («Vecchio fortunato, cui fu concesso abitare campi così fertili e godere in letizia luoghi tranquilli, così la dea di solito invidiosa della felicità sia clemente, sia prospera, e ti conservi il desiderato riposo»). Il tardivo omaggio di Minturno è tanto più rilevante se si tiene conto della selezionatissima platea dei destinatari dei suoi carmi latini: Imperatore, papi, grandi funzionari dell’impero, viceré, vescovi. Gli unici letterati sono Paolo Giovio e Giano Anisio, che viene ricordato, per quanto assente al dibattito, da Lucio Vopisco nel De poeta dello stesso Minturno (Venezia, Rampazzetto, 1559, libro III, p. 178) come il letterato a quel tempo (circa 1526) meglio attrezzato per discutere di teatro tragico. Anisio avrebbe pubblicato nel 1536 la tragedia Protogonos (Napoli, Sultzbach).
8. Ho provato a ricostruire la rete di relazioni dei fratelli Martirano in miei precedenti lavori: Bernardino Martirano, Il pianto d’Aretusa, ed. T. R. Toscano, Napoli, Loffredo, 1993 e, da ultimo, T. R. Toscano, «Un nobile cosentino al servizio dell’Impero: otia e negotia di Bernardino Martirano tra eredità pontaniana e sperimentalismo in volgare», in D. Gagliardi (ed.), La cultura ispanica nella Calabria del Cinque-Seicento. Letteratura, Storia, Arte, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2013, pp. 115-28.
9. «Las poesías latinas de Garcilaso de la Vega y su permanencia en Italia», Bulletin Hispanique, vol. 25, 1923, pp. 108-48, a pp. 141-142.
10. Segnalata da me nel 1988, allorché estrassi da questo liber “disperso” il precoce distico in morte di Ludovico Ariosto: T. R. Toscano, «Due “allievi” di Vittoria Colonna: Luigi Tansillo e Alfonso d’Avalos», in Critica letteraria, anno XVI, nº 61, 1988, pp. 739-773 (a pp. 764-765, nota 69). Manca infatti nel catalogo ricostruito da Carlo Vecce, «Giano Anisio e l’umanesimo napoletano. Note sulle prime raccolte poetiche dell’Anisio», cit. e di qui riproposto da Micaela Ricci in Aulo Giano Anisio, Melisaeus, Foggia, Edizioni del Rosone, 2008, pp. 32 e 65.
11. «Caro Garcilaso, prole del ricco Tago, perché mi neghi il piacere di un bellissimo ozio: e di questo ritiro assai felice senza le tirannie di codesti vostri lussi? Qui si mette al fuoco anche un intero frassino e con Vulcano ardente si scaccia il freddo bruciante; la servitù intanto con piacere schiamazza e ride. Qui quando Sirio spietato agitando il capo brucia le distese adorne di bionde spighe, quando l’alto faggio protende i rami a pergolati o il paesaggio della foltissima vite embriciata tengon lontana la calura con dolce frescura, qui me ne sto felice io dell’ombroso riparo e dei racemi di Libero, lieti di saporoso nettare. Non cento bocche dotte e voce di ferro saprebbero uguagliar di lodi i preziosi beni della campagna; vi scambieresti codeste gioie della città, piagate da veleno d’idra e dalla bocca di Cerbero». Ringrazio i colleghi latinisti Crescenzo Formicola e Giancarlo Abbamonte che hanno controllato la traduzione di questo e dei componimenti che seguono.
12. «Las poesías latinas de Garcilaso de la Vega», cit., p. 141.
13. Per la possibile relazione tra questa allusione di Anisio all’aspetto peloso e boscoso di Garcilaso e lo pseudonimo di Nemoroso si veda E. Fosalba, «Implicaciones teóricas del alegorismo autobiográfico en la égloga III de Garcilaso”, Studia Aurea. Revista de Literatura Española y Teoría Literaria del Renacimiento y Siglo de Oro, 3 (2009), 39-104, soprattutto 49 y 76.
14. Edizione a cura di J.-L. Charlet, Sassoferrato, Istituto internazionale di studi piceni, 1989, p. 22.
15. Totius Latinitatis lexicon, s. v. silex: «Silex est durus lapis eo quod exsiliat ignis, ab eo dictus. Verum potius coniungenda est vox cum Gr. σέλας, fulgor…».
16. «È una fatica di Ercole, o Pietro, porre in ordine i costumi di Napoli, ma è fatica che si addice a un uomo coraggioso. Perciò osa di più e acquistati questa lode. […] Quindi poni un freno alle doti eccessive e ai lussi smodati e alla dissolutezza sfrenata. […] Il supremo lavoro proprio di Alcide è eliminare i Cachi e onorare i virtuosi e ricondurre Napoli divina collassata dalla decadenza della vetustà alla sua bellezza. In guerra è stata offerta la pace ai nemici sconfitti, questa stessa pace dona o padre ai cittadini in patria. Con i voti augurali di Carlo [V] la vergine Astrea tornerà dall’Olimpo e percorrerà di nuovo la terra».
17. Si tenga conto che il poeta più organico alla corte di don Pedro, Luigi Tansillo, avrebbe atteso il 1551 per mandare alle stampe due smilze plaquettes poetiche (i Sonetti per la presa d’Africa e il [Capitolo per la liberazione di Venosa]): cf. T. R. Toscano, «Tra don Pedro e don García de Toledo: Luigi Tansillo cortegiano e precettore», in Encarnación Sánchez García (dir.), Rinascimento meridionale: Napoli e il viceré Pedro de Toledo (1532-1553), Napoli, Tullio Pironti, 2016, pp. 457-475.
18. «Se poi ho bisogno di qualcosa vado a Nola fiorente città di origini euboiche e ai mercati vicini. La servitù indugi vicino al camino: queste sono le gioie che la sincerità condisce del suo nettare. La semplicità e la virtù stabilirono qui l’ultima dimora una volta espulse dalle affollate città. Spesso la dolce Domicella mi racconta il modo di vivere e di lavorare degli antichi coloni. Ma dare pienamente conto in versi dei vantaggi della vita agreste sarebbe come navigare il vasto Oceano con una zattera. Gli dèi non hanno concesso al mondo niente che sia più piacevole della campagna, dove più copioso il guadagno e la vita più schietta, semplici i divertimenti, non troppo elaborato il discorrere, le risate. […] Questa amabilissima Remora mi ha dissuaso dal ritorno nella città, e questa è la Sirena che mi diletta straordinariamente». Segnalo en passant il gusto dell’allusione peregrina che si cela dietro l’uso di Remora con l’iniziale maiuscola, variazione toponomastica per indicare Domicilla, da riconnettere al Remurinus ager lemmatizzato nella nota epitome del De verborum significatione di Pompeo Festo, realizzata da Paolo Diacono: «Remurinus ager dictus, quia possessus est a Remo: et habitatio Remi Remora: sed et locus in summo Aventino Remoria dicitur, ubi Remus de urbe condenda fuerit auspicatus» (P. Fest. 276 M.). Se però la tranquillità di Domicilla-Remora si contrappone al frastuono e al disordine della capitale, è probabile che Anisio faccia riferimento alla notizia riferita da Dionigi di Alicarnasso nel primo libro delle Antiquitates Romanae (cito dall’edizione, priva di segnatura e di cartulazione, stampata da Bernardino Celeri a Treviso nel 1480, in cui però il traduttore è erroneamente indicato come «Lappus Biragus Florentinus» (= Lapo da Castiglionchio il Giovane), trattandosi invece di Lampugnino Birago, allievo del Filelfo: sul quale cf. Massimo Miglio, Birago, Lampugnino, in Dizionario Biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1968, t. 10), che a differenza di chi riteneva che Remora si dovesse localizzare sul colle Aventino, lo indica come «locus ad capiendam Urbem opportunus collis haud procul Tiberi, ad triginta ipse stadia Roma distans». Anisio poteva aver letto questa traduzione latina che ebbe larga circolazione, mentre è dubbio se potesse conoscere il luogo di Ennio (Annal. 77: «Certabant urbem Romam Remoramne uocarent»), in cui si fa riferimento alla disputa tra Romolo e Remo sul nome da attribuire alla città che intendevano fondare.
19. Luigi Tansillo, Capitoli giocosi e satirici, ed. C. Boccia e T. R. Toscano, Roma, Bulzoni Editore, col. «Europa delle Corti», 153, 2010, p. 345.
20. Lettera da Ratisbona del 2 settembre del 1532: cf. G. Vincenti, La contea di Nola dal sec. XIII al XVI, cit., p. 65.
21. Il fatto è narrato con molta enfasi da Gianstefano Remondini, Della nolana ecclesiastica storia, Napoli, Stamperia Simoniana, 1757, t. III, p. 212-214. L’eco dell’attesa delle città di Nola e di Lauro (quest’ultima facente parte della contea di Nola) di una adeguata ricompensa per gli atti valore compiuti a favore delle armi imperiali nel corso delle recenti invasioni francesi è anche in Cosma Anisio (Poemata 1533, cit., c. 66r), De Lauro et Nola: «Praemia debentur multis, sed praemia Laurus / Nolaque praecelso a Caesare digna petunt. / His siquidem amissis deploravere salute / Galli, tam turpis factaque deditio est, / Quippe fame non est homini pollentior hostis: / Tormenta haec vincit fulminaque ipsa Iovis» («A molti sono dovuti dei premi, ma Lauro e Nola chiedono a Cesare [Carlo V] supremo premi adeguati: dal momento che, perduti questi [cioè Lauro e Nola] i Francesi disperarono della loro salvezza e fu stipulata una resa così vergognosa. Per l’uomo invero non esiste nemico più vigoroso della fame, la quale vince le punizioni e gli stessi fulmini di Giove»). Altro riferimento alla “liberazione” di Nola nel sonetto 151 di Luigi Tansillo a Giacomo Antonio Cesarini (cf. Rime, introduzione e testo a cura di T. R. Toscano, commento di E. Milburn e R. Pestarino, Roma, Bulzoni Editore, col. «Europa delle Corti» 154, 2011, t. II, pp. 552-553.
22. «Mi domandasti cosa voglia dire l’antico adagio di Socrate: ciò che so più a fondo, è quell’unica cosa che non so. Ascolta cosa io interpreto avere inteso il grande saggio, o Luigi candido di anima e cuore. Intendeva dire che egli sapeva con certezza che Dio esiste; ma cosa ciò fosse tuttavia non era ancora noto ai mortali in tanti secoli».
23. A c. 91r, Ad Therinem Sanseveriniam: «O essem Zephyrus, cum terras Sirius urit, / spirantem ut mammis me caperes niveis. / O viola o essem rosa, odoro ut, dia Therine, / aut gremio aut istis perfruerer manibus.» («Zefiro fossi io quando i campi dissecca Sirio, così che mi accogliessi come brezza tra le bianche mammelle. O viola o rosa io fossi sì da lambire, divina Caterina, o il tuo grembo olezzante o codeste mani»). Eugenio Mele, «Las poesías latinas de Garcilaso de la Vega», cit., p. 126, ricorda che nel testamento di Elena de Zuñiga, vedova di Garcilaso, si riconosce a Caterina Sanseverino un credito di 300 scudi prestati al poeta durante il suo soggiorno a Napoli.
24. «Se alcuno mai ha visto Giunone e Venere e Pallade, divinità eccellenti per nobiltà, e qui ha visto Maria di Cardona dal volto giocondo, avrebbe potuto dire di aver contemplato celesti dee. Ma poiché l’anima è molto più bella del volto, contemplare questa soltanto non è facoltà di superficiale discernimento».
25. D’altra parte nemmeno l’amicizia con il conterraneo Luigi Tansillo durò a lungo: nel 1538 Anisio stampò un violento epigramma in cui attaccava la produzione del più giovane poeta: «Quid Musa possit, Musa Apollinis soror, / non ista nata barbaris parentibus, / Tansille noscis, atque Anysium facis / parvi poetam lauream cinctum comas. / Hoc excitare dormientes est nepas» («Di cosa sia capace la Musa, dico la Musa sorella di Apollo, non codesta (tua musa) nata da genitori bastardi, ignori, o Tansillo, e fai poco conto di Anisio poeta coronato di alloro. Questo vuol dire svegliare gli scorpioni in letargo»): Iani Anysii Epistolae de religione et epigrammata, Napoli, Sultzbach, 1538, c. 24v. Sul contesto e sulle motivazioni che furono alle origini di questa polemica cf. T. R. Toscano, Giano Anisio tra Nola e Napoli: amicizie, polemiche e dibattiti, in L’enigma di Galeazzo di Tarsia. Altri studi sulla letteratura a Napoli nel Cinquecento, Loffredo, Napoli 2004, pp. 79-102.
26. «E chi potrebbe decidere di decretarsi la morte dal momento che il successo non accarezza i poeti quando sono ancora in vita? Affinché la posterità, equanime, riconosca le nostre fatiche, uno scaffale le salvi dalla funesta corrosione. Nel frattempo la storia deve fare largo ai Rolandi e alla lingua degenerata e alla feccia del secolo».
27. Sulla fortuna dell’Orlando furioso a Napoli, largamente favorita dalla “corte” di Vittoria Colonna e, soprattutto, di Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, cf. T. R. Toscano, Letterati corti accademie. La letteratura a Napoli nella prima metà del Cinquecento, Napoli, Loffredo, 2000, pp. 104-108. Di particolare suggestione l’ipotesi di recente affacciata da Eugenia Fosalba «Más sobre la estancia de Garcilaso en Nápoles. Epigramas funerales a la muerte de Ariosto», in Encarnación Sánchez García (dir.), Rinascimento meridionale: Napoli e il viceré Pedro de Toledo (1532-1553), Napoli, Tullio Pironti, 2016, pp. 387-407) della attribuibilità a Garcilaso di un epicedio adespoto in morte di Ariosto, che si legge di seguito alle due odi latine di sicura attribuzione nel ms. XIII AA 63 (c. 64r) della Biblioteca Nazionale di Napoli.
28. Ariosto era morto il 6 settembre 1533, il liber di Giano è dello stesso anno.
29. «Insieme a Ludovico morirono Marte, Febo e persino la storia gloriosa degli eroi di Francia».
30. «O secolo ignorante: la parlata toscana gode di tante trattazioni, contro le poche e stantie di cui dispone quella latina. E se Bembo non mi vincolasse di inviolabile amicizia, io non so di quale colpa lo accuserei: il nobil uomo dedica a codeste bagattelle un impegno maggiore di quanto forse sarebbe stato degno di ingegno così elevato»: Iani Anysii Epistolae de religione, cit., c. 17r. La reprimenda a Bembo si legge in un componimento indirizzato Ad Flavium (probabilmente identificabile con il Giovanni Paolo Flavio, che nel 1535 aveva curato l’edizione del commento di Donato all’Eneide stampata a Napoli da Sultzbach, con dedica a don Luis de Toledo, figlio del Viceré, cui segue una lettera di Scipione Capece a Garcilaso de la Vega). Sempre a Bembo nel 1531 (Iani Anysii Varia poemata et satyrae, cit., c. 67v) aveva chiesto che insegnasse agli amici napoletani, «Camoenas qui faciles colunt, / curas edaces pallidasque / tristitias animo ut repellant» («che coltivano Muse di facile accesso, a scacciare dall’animo passioni divoratrici e pallide tristezze»), in cui è evidente l’ironica presa di distanza dell’umanista nei confronti di rimatori di vena abbondante in tema di dolori e sospiri.